martedì 24 settembre 2013

Fotografia e didattica. Una sfida.



Enzo Sellerio, Cefalù, 1958
La veicolazione delle informazioni e del sapere nel corso degli ultimi anni è stata interessata da una rivoluzione copernicana. Dall'invenzione dei procedimenti di stampa e per secoli, i percorsi di gestione della conoscenza sono passati sulla pagina stampata con un meccanismo consolidato, su cui spesso insisteva il filtro riconosciuto di una comunità scientifica a garantire la qualità della proposta. Dalla scrittura all'arte, dalla scienza alla musica, tutti i percorsi di conoscenza potevano essere diffusi, oltre le possibilità offerte all'originale di circolare, attraverso le pagine dei libri. Le incisioni che riproducevano opere d'arte, realizzate talora da artisti di bella levatura, consentivano una diffusione delle opere che agli originali erano negate. Gli artisti, attraverso le incisioni, potevano confrontarsi con i maestri del passato ma anche con i loro contemporanei, contribuendo alla costruzione di un'arte corale, fatta di aggregazioni e fratture ma tutta coinvolta in una sorta di immaginario condiviso, in cui modi e tecniche di rappresentazione fissavano elementi comuni e riconosciuti. Allo stesso modo anche la musica trovava posto nelle pagine, coprendo distanze che cori e musicisti non avrebbero saputo affrontare. La pagina era dunque il veicolatore d'eccellenza e il perfezionamento progressivo dei processi di stampa l'ha collocata ai vertici dei meccanismi di gestione dell'informazione per secoli. Almeno fino alla recente rivoluzione attivata dall'avvento delle tecnologie digitali e dello sviluppo della rete. Al presente le possibilità di veicolazione di immagini e testi sono esponenzialmente aumentate ma il percorso è stato così repentino da generare seri problemi di gestione. La comunità scientifica che in qualche modo poteva filtrare i contenuti dell'editoria tradizionale non è più riconoscibile nelle maglie della rete e una iperproduzione di contenuti, a volte senza verifiche e senza metodo, ha invaso i motori di ricerca diventando un problema nell'esercizio della didattica. Tutto sembra facilmente fruibile ma, come vedremo, pur riconoscendo la formidabile opportunità delle nuove tecnologie e lontani da qualsivoglia stimolo al luddismo, dobbiamo riconoscere che è necessario trovare un percorso di avvicinamento alle nuove modalità di gestione delle conoscenza che si palesano. Nello specifico della fotografia, la stessa si era costruita il suo percorso tecnico e contenutistico sulla stretta relazione tra scatto e fotografia stampata e quindi in significativo sincrono con i sistemi di veicolazione tradizionali e ha a sua volta dovuto misurarsi con l'avvento del digitale. L'estensione a fasce sempre più ampie di utenza, dell'utilizzo della macchina fotografica, iniziata con l'avvento del cosiddetto formato Leica, ha trovato il suo culmine nella realizzazione di tecnologie digitali a basso costo. Le stampe hanno lasciato il posto ai file e hanno riempito enormi spazi di memoria virtuale. Perduto il vincolo di spesa che obbligava i fotografi, costretti a confrontarsi con i costi della pellicola e della stampa, a una scelta attenta dei soggetti in un percorso critico complesso attivato già in fase di inquadratura, tutto è stato ripreso, fotografato, accumulato in milioni di immagini che saranno la dannazione degli storici della fotografia del terzo millennio, perdendo parte della loro efficacia di sintesi.
La didattica si era a sua volta sviluppata nel tempo su un criterio testuale di riferimento al quale venivano affiancate illustrazioni e, successivamente, fotografie. L'utilizzo delle immagini fotografiche in campo didattico, se si esclude la manualistica specificamente riferita agli studi storico artistici, all'inizio era piuttosto riconducibile a ragioni meramente formali. Le fotografie evocavano e spesso avevano funzioni addirittura puramente esornative che le includevano nella pagina non come portatrici di ulteriori contenuti rispetto al testo proposto. Solo negli ultimi vent'anni, indicativamente, le fotografie sono entrate da riconosciute comprimarie nella narrazione didattica. Soprattutto grazie agli storici che, sempre più attenti ad includere una galassia complessa di fonti che passa, oltre che dalle foto, dal cinema e dalla canzone e arriva alla pubblicità e al fumetto, hanno cominciato a proporre nei loro manuali la lettura di questi materiali, affiancandoli alla didattica di tradizione. A differenza degli altri media però, la fotografia nel corso dei decenni ha viaggiato in editoria mutilata da alcune significative informazioni di supporto che per la didattica risultano fondamentali. Il percorso di didattica della storia riferibile alla fotografia è segnato da profonde contraddizioni, prima fra tutte la presenza ossessiva e capillare di immagini fotografiche che insistono sulla quotidianità di discenti e docenti, in contrapposizione con le gravi lacune in merito a una nozione minima, da parte di una larghissima parte dei fruitori, di quelli che sono i complessi meccanismi narrativi del medium in oggetto. Non vi è quasi mai consapevolezza dell'autorialità degli scatti e meno che mai delle grammatiche, sia tecniche sia espressive, che sottendono al complesso linguaggio della fotografia. Nel corso di questi anni, in seno a strutture didattiche diverse, dalle aule universitarie alle scuole superiori di diverso indirizzo, è capitato, parlando di fotografia, di sottoporre agli studenti un test. Viene chiesto di segnalare tre scrittori italiani del Novecento e, a seguire, tre registi, tre pittori e tre giornalisti e via di questo passo alla ricerca di icone delle diverse discipline. Le risposte non mancano mai e danno ragione di una varietà di riferimenti significativa. Successivamente si chiede di indicare i nomi di tre fotografi italiani e, se si esclude qualche reminiscenza recuperata più propriamente alla nozione della storia della pubblicità piuttosto che della fotografia, la larga maggioranza, quasi la totalità, non è in grado di fornire una risposta. Se le pagine contenute nelle antologie letterarie non facessero debita menzione degli autori dei singoli brani, collocandoli criticamente nelle coordinate croniche e topiche di competenza, i materiali proposti perderebbero significativamente di efficacia didattica. Le fotografie nei manuali scolastici erano e sono ancora spesso proposte senza riferirle a fondamentali informazioni didascaliche che comprendano l'autore e la collocazione nello spazio e nel tempo dello scatto. Questa propensione degli apparati didattici è forse figlia di un atteggiamento antropologicamente radicato in Italia. La paternità dello scatto, nel corso della storia di questo medium nel nostro paese, spesso non è sembrata degna di particolari attenzioni; a partire dagli anni Cinquanta i fotografi sono stati protagonisti di una battaglia durissima per far garantire palese paternità ai loro scatti pubblicati nell'editoria periodica e nei volumi compresi nei cataloghi degli editori nazionali. Lunghe dispute anche legali hanno visto contrapporsi i fotografi e il mondo dell'editoria. Senza parlare poi del mercato della fotografia e del collezionismo, che solo in tempi relativamente recenti, sulla scorta di altre esperienze consolidate all'estero e soprattutto grazie all'attenzione di acquirenti stranieri, ha cominciato a muovere i suoi passi nel nostro paese con l'apertura di gallerie dedicate. Si pensi, a corollario di questa riflessione per sommi capi sulla consapevolezza della fotografia come fatto autoriale in Italia, che l'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione ha approntato la scheda F, destinata alla catalogazione dei beni fotografici, solo in tempi relativamente recenti, quando le campagne di catalogazione erano già state avviate massicciamente sul territorio da anni. Ovviamente però non intendiamo banalizzare con la segnalazione di attitudini tardive e scarsa consapevolezza dei media tradizionali e delle istituzioni i motivi di un atteggiamento culturale nei confronti della fotografia che ha radici complesse e forse non del tutto esplorate. Riconducendo però la nostra riflessione ai criteri della didattica al presente è evidente che se, come accennato, i contenuti visuali tenderanno a prevalere su quelli testuali sarà necessario costruire una vera e propria grammatica nuova delle immagini fotografiche. L'impresa risulta decisamente problematica, considerando che la fotografia a sua volta sta subendo una mutazione di mercato che si riflette inevitabilmente anche sull'editoria. Le agenzie tradizionali e il lavoro dei fotografi a forte impronta autoriale sono stati affiancati e superati dalla proposta di banche immagini a basso costo che sono la negazione delle informazioni che riteniamo necessarie per dare alla fotografia la possibilità di essere considerata un contenuto e non un ornamento. La proposta di immagini on line ha apparati didascalici carenti, una tecnica spesso affidata a materiali a uso amatoriale e frequentemente i pochi dati sull'autorialità portano a nomi di utenti, spesso di fantasia, che sono lì fondamentalmente per assolvere agli obblighi minimi del percettore di redditi. Succede dunque che lo stesso scatto sia accreditato a autori diversi su banche immagini diverse e la confusione che si genera è considerevole. Senza parlare dell'omologazione della narrazione per immagini che, privilegiando quelle a basso costo, finisce per proporre sul mercato prodotti di editori diversi ma omologati a un unico scialbo criterio narrativo. Del resto siamo esposti a una sorta di inarrestabile fotorrea. Immagini vengono continuamente impresse sui diversi supporti digitali, dalla macchina fotografica al telefonino e al tablet e forse è questa una delle ragioni profonde della scarsa propensione a ritenere la fotografia “degna” come altri media. Gli studenti realizzano a loro volta e si scambiano in rete centinaia di immagini e quel gesto ripetuto tende a banalizzare l'immagine come racconto, restituendo la sensazione che nulla vi è di eccezionale in una cosa che si ritiene di poter replicare a piacere con risultati analoghi all'autore pubblicato sul giornale. La riproducibilità del gesto più che dell'immagine sembra il reale problema della fotografia nella contemporaneità, perché pare diluire il senso della meraviglia generato da una volta affrescata o da una pagina di romanzo. Alcuni editori e alcuni esperti della didattica hanno però raccolto la sfida. Si tratta di scendere davvero in un'arena in cui i media sono alleati e avversari, si tratta di riuscire a comporre un percorso narrativo che sappia generare la stessa distanza che passa tra il processo di alfabetizzazione e le pagine di un grande romanzo. Lo sforzo del didatta oggi è quello di valorizzare i suoi strumenti mediatici, restituendo loro una dignità spesso negata e costruendo una cultura critica dell'immagine che non sia più appannaggio di piccole comunità specialistiche ma accenda piuttosto i motori critici delle nuove generazioni, consentendogli di guardare alla fotografia, sia quella all'interno di un periodico sia quella proposta nelle sale di un museo o nei cassetti digitali di un archivio, con una consapevolezza nuova. In quest'ottica la storia, la narrazione della storia contemporanea attraverso la fotografia, diventa un campo d’azione privilegiato in cui esercitare i criteri del vero e del falso, della fonte nel suo tempo e della fonte al presente, della fotografia stessa come agente di storia. La didattica passerà quindi, una volta che si sia acquisita consapevolezza con il racconto autoriale, dalle memorie domestiche che diventano, nell’acquisizione del tempo della storia, memorie collettive, che misurano le vicende complesse della contemporaneità mettendo sul tavolo avi partigiani e avi repubblichini recuperati dagli albi familiari. Una modalità di narrazione del domestico che è condivisa, che ha dei luoghi frequentati e imprescindibili che sono tutti da riscoprire. Ancora una volta la fotografia è regina e reietta, perché è di certo tra i media quello più utilizzata, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, per la celebrazione della memoria domestica ma anche quello su cui si esercita pochissima consapevolezza dei criteri narrativi. Lo storico della fotografia ben conosce il meccanismo che genera da periodo a periodo le modalità di rappresentazione nella ritrattistica o nella foto di cerimonia ma per la didattica sarebbe fondamentale individuare, e ci si lavora da qualche anno, alcune immagini segnatempo, alcune foto miliari, che possano generare un efficace immaginario condiviso.

Il percorso da attivare con la didattica è dunque di ricollocazione della fotografia nel suo ruolo di narratrice, recuperando anche tutti quei dati riferiti che fino a oggi si ritenevano spesso superflui. Il tutto contribuirà alla costruzione di un immaginario iconico che sia assimilabile a quello della produzione storico artistica e che ha reso nel tempo facilmente riconoscibili opere come la Gioconda o Guernica, trovando nella fotografia, restituita compiutamente al suo criterio narrativo, una formidabile alleata per affrontare l'era dei contenuti visuali.






venerdì 20 settembre 2013

Tempo di scrivere, tempo di guardare

Carlo Naya, Scrivano e traduttore, Napoli, 1865



Carlo Naya, nato a Tronzano Vercellese nel 1816 e morto nel 1882 a Venezia, lega alla città lagunare la sua fama di fotografo. In realtà compì i suoi studi universitari a Pisa e viaggiò molto in Italia e all’estero ma è effettivamente a Venezia che la sua attività di fotografo ebbe chiaro compimento professionale. Normalmente dedicato al racconto della città secondo uno schema narrativo riconducibile all’esperienza dei vedutisti, subisce il fascino del fermento che si muove tra le vie strette della città che i suoi magnifici scorci non sanno certo raccontare. Nella sua produzione affiorano dunque reperti di quella che oggi chiamiamo foto sociale, racconti di marginalità, di piccoli commerci di sussistenza. Una foto notissima, risalente al 1865 e che, colorata, ritroviamo anche nel catalogo di Giorgio Sommer è quella dello scrivano e traduttore di piazza. Realizzata a Napoli questa immagine è una sintesi efficacissima del suo tempo. Siamo agli albori dell’unità d’Italia e il meccanismo di costruzione dell’identità nazionale è ancora lungi dall’essere avviato secondo la strategia che prevede l’attivazione di percorsi scolastici minimi estesi a ampie fasce della popolazione, così da poter costruire una lingua condivisa sulla babele di altre lingue e dialetti che suonano avverse al concetto stesso di unità. Il grado di scolarizzazione in quello che fino a pochi anni prima era il dominio borbonico era piuttosto basso e per leggere le lettere, per scriverle alle persone care che s’erano avviate verso i flussi migratori, toccava chiedere aiuto a persone istruite. Lo stesso valeva per la gestione burocratica della propria vita, documenti, ingiunzioni, chiamate alla leva, tutto quel sistema complesso che oltre la scolarzzazione puntava alla costruzione a tappe forzate di un identità condivisa. Nei vicoli napoletani Carlo Naya fotografa dunque questo scrivano e traduttore ambulante mentre offre i suoi servizi professionali a una donna. Il personaggio ha un aspetto strano, marca la sua immagine di studioso ponendo l’accento anche sui modi e l’aspetto secondo una divertente strategia di marketing. La donna, nella posa cercata dall’artista, guarda allo scrivano come al maestro di porta di un mondo misterioso e irragiungibile.
Sembrano memorie di un tempo lontano.
 
A Torino quando il tempo è propizio un ragazzo tunisino sposta il suo ufficio all’aperto e riceve i suoi clienti. Permessi di soggiorno, curricula, libretti di lavoro. C’è una piccola fila ordinata in attesa nel tardo pomeriggio e c’è un vassoietto con i biscotti per ingannarel’ansia. Guardandolo mi sono ricordato di Carlo Naya e del mio rifiuto di pensare “le immagini di un tempo” preferendo piuttosto pensare che le immagini hanno tutto il tempo che vogliono. Con buona pace di quelli che non seppero spiegarsi a suo tempo perché il mio racconto per immagini dei giorni del boom economico passasse dai vicoli delle città percorsi dall’acquaiolo e dall’impagliatore di fiaschi. Le fabbriche c’erano, certo che c’erano, perché i racconti valgono tutti. Tutti appunto. E questo me lo son fatto scrivere da un signore alla fermata del tram. Per pochi spiccioli in cambio. Tenetene il debito conto.


Giorgio Olmoti, Scrivano e traduttore, Torino, 2012










Cogli l'attimo furente





Il professionismo in fotografia si è svelato, nel corso dei passaggi storici attraverso il Novecento, come una dimensione eclettica che continuamente deve misurarsi con il mercato e con le evoluzioni tecniche. La moda, la foto industriale, il design, la politica sono ambiti che sanno ancora una volta svelare l’efficacia innegabile del mezzo fotografico nell’epoca della comunicazione di massa. La possibilità estesa a tutti di realizzare immagini si amplifica nell’era della fotografia digitale, stravolgendo i criteri di gestione dell’immagine professionale ma anche il rapporto dei mezzi d’informazione con il prodotto foto. Vale la pena fare una riflessione sulla fotografia come prodotto del presente. Con l’affermazione dell’immagine digitale, che consente una produzione di immagini altissima a costi contenuti e una altrettanto rapida veicolazione delle stesse, l’ambito professionale ha dovuto far fronte a nuove problematiche. La questione centrale dall’inizio era proprio la riconoscibilità autoriale. Tre sono le peculiarità che identificano il professionista nella massa fotografante: l’occhio, che consente di scegliere l’inquadratura più efficace per raccontare con le immagini e per catturare emozioni; la capacità di utilizzare efficacemente strumenti tecnici complessi; il confronto con il mercato. Con la fotografia digitale la stessa proprietà di un’immagine, attestata dal possesso del negativo originale, entra in crisi, rendendo meno definito il concetto di titolarità autoriale, per il quale tanto si sono battuti i fotografi professionisti nel corso di tutto il Novecento. Le fotografie reperite in rete possono essere scaricate e manipolate con una facilità mai prima registrata con i supporti tradizionali, e anche i materiali cartacei possono essere riprodotti con una fedeltà che con i sistemi analogici richiedeva una certa esperienza e attrezzature specifiche che ora sono compendiate efficacemente da scanner a prezzi abbordabili e da programmi di fotoritocco alla portata di una buona parte degli utenti di attrezzature fotografiche.
La realizzazione di immagini di qualità con gli strumenti disponibili sul mercato delle macchine digitali, che solo fino a pochissimo tempo fa offrivano prestazioni ancora lontane dai risultati ottenibili con le pellicole, consentono ora un incredibile controllo dell’immagine e l’impiego di attrezzature assai meno dispendiose e ingombranti di quelle tradizionali. Senza contare che non c’è la necessità di avere tra lo scatto e il prodotto finito la mediazione del laboratorio, perché il file è disponibile da subito, e inoltre può essere migliorato e modificato dai programmi studiati allo scopo, Le esigenze professionali fanno però in modo che anche in questo ambito le specializzazioni determinino l’utilizzo di attrezzature più sofisticate, giustificando gli investimenti con il rientro commerciale. Di pari passo con l’evoluzione tecnica, il professionista lavora sui moduli espressivi e sullo stile che in qualche modo possa caratterizzare il suo lavoro, cercando di connotare i suoi scatti attraverso una precisa personalità autoriale. Innegabilmente però, aldilà degli esiti della produzione di immagini professionali, la nostra epoca si caratterizza per una produzione enorme di fotografie e con questo dato deve confrontarsi necessariamente anche il professionista.





New York, undici settembre 2001, nella mattinata due aerei si schiantano in rapida successione contro le due torri del World Trade Center. A pilotare i velivoli, in un’azione combinata tremendamente efficace, è un gruppo di terroristi islamici. La nostra analisi di questo episodio si limiterà alla sua rappresentazione attraverso la realizzazione di immagini. Nella sua natura più strettamente dinamica, l’azione dell’aereo che impatta sull’edificio è caratterizzata da due elementi fondamentali che sono anche ispiratori delle soluzioni tattiche adottate dal commando: la rapidità e l’effetto sorpresa. L’aereo arriva veloce e inaspettato sul suo obiettivo, impedendo l’attivazione di qualsiasi contromisura dei sistemi di sicurezza. Un' azione così repentina non si può certo documentare agevolmente con una macchina fotografica. Nessun fotografo, per quanto ben scortato dal meraviglioso “istinto dell’attimo” potrebbe farsi trovare pronto, con le attrezzature sapientemente disposte, teso a fermare l’immagine dell’aereo che impatta contro l’edificio. Il professionista, e ben lo sanno quelli specializzati in foto naturalistica, si apposta valutando la probabilità che davanti ai suoi obiettivi si verifichi l’evento che dia un senso di eccezionalità ai suoi scatti o che almeno possa descrivere significativamente il contesto che intende raccontare con i suoi scatti. Ai fotoamatori che catturano frequenti immagini, a volte interessantissime, che pure resteranno nei cassetti ignare dei giochi del mercato, ai dilettanti presi da passione passeggera per la realizzazione delle fotografie, a quelli che girano con una macchina fotografica in tasca perché non si può mai sapere, resta da giocare la partita del caso, con un calcolo probabilistico che ai giorni nostri gli assegna già il premio per la puntuale documentazione grazie solo al loro numero enorme rispetto alla schiera selezionata dei professionisti.
E infatti dell’aereo piantato sul fianco del grattacielo e nella polpa dello sgomento di milioni di persone abbiamo testimonianza grazie a quelli che erano lì, in vacanza, concentrati a raccogliere schegge di memoria per implementare archivi domestici. Il rumore assordante dell’aereo che piomba sulla città e gli sguardi che d’istinto si rivolgono al cielo e l’inquadratura della famiglia sotto le Twin Towers che si perde perché l’obiettivo segue l’attenzione di chi scatta e guarda verso il cielo, verso l’incredibile: nelle videocamere riempite di sorrisi turistici, nelle fotocamere usa e getta, nelle webcam puntate sulla città statunitense paradigma dell’Occidente, quel momento viene impresso e passa dai bollettini su Internet ai notiziari e ai giornali e la qualità è poca cosa ma nemmeno dalle immagini di partigiani impiccati, scattate scostando appena un lembo del cappotto davanti all’obiettivo clandestino, ci si attendono esposizioni calibrate, dettagli e definizione. Eppure di quel breve attimo, non certo dell’agonia dei due grattacieli e delle facce dei soccorritori e dei corpi di quelli che scelgono di lanciarsi nel vuoto per non morire arsi vivi, tutte cose che già avevano addosso le lenti rapide, esperte dei professionisti, rimane memoria grazie al lavoro capillare di catalogazione dei gesti minimi che è caratteristica del nostro presente e che si affida alla moltitudine dei praticanti della fotografia. Già a partire dal secondo impatto, gli obiettivi dei grandi professionisti sono tutti puntati sulla scena, dando prova dell’efficienza della macchina complessa del mondo dell’informazione. Sui giornali e nelle mostre allestite successivamente, le immagini dei fotoreporter più o meno improvvisati e quelle dei professionisti viaggeranno in parallelo, e sarà difficile distinguerle tra loro.



Proviamo ora a spostare l’attenzione sulla realtà italiana. “Un morto, quasi seicento feriti (560), oltre duecento persone arrestate (219), circa cinquanta miliardi di danni: ecco le cifre del G8. Ecco i numeri del vertice degli otto paesi più industrializzati, andato in scena a Genova da venerdì 20 luglio a domenica 22. Tre giorni di discussioni per i grandi della terra, tre giorni segnati in maniera tragica dall’uccisione di un ragazzo di 23 anni, Carlo Giuliani, uno dei contestatori colpito venerdì pomeriggio da un colpo di pistola esploso da un giovane carabiniere. La foto di questo ragazzo, steso sul selciato di piazza Alimonda, con una pozza di sangue ad allargarsi dietro la testa, le braccia a croce e un compagno che tenta di rianimarlo è il simbolo di quello che è accaduto a Genova.” (1)




Genova nell’estate del 2001, in corrispondenza con il G8, che si è deciso di tenere nel capoluogo ligure, è attraversata da aspri scontri. Come era già accaduto nel luglio del 1960, stesso mese stesse scene per i carrugi genovesi, gli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine sono violenti. Il culmine di questi eventi è l’uccisione del giovane Carlo Giuliani. La scena della tragedia è in piazza Alimonda. Un fuoristrada dei carabinieri viene assaltato da un gruppo di manifestanti. Dal finestrino rotto del veicolo spunta una mano che stringe una pistola d’ordinanza. Un giovane a volto coperto, Carlo Giuliani appunto, sta avanzando incontro al mezzo e ha tra le mani un’estintore che ha appena raccolto da terra e che, nelle probabili intenzioni, sta cercando di scagliare contro il fuoristrada dei carabinieri bloccato da un cassonetto. Rimane freddato dal proiettile che lo colpisce allo zigomo. Ebbene, di quella scena si scopriranno fotografie diverse, angolazioni e particolari che potranno offrire indizi alla verità.
Tutte le inchieste, le analisi, le cronache dei giornali utilizzeranno le immagini per spiegarsi e spiegare quei tragici secondi che passano tra il momento in cui il ragazzo raccoglie l’estintore da terra e il momento in cui giace immobile in una pozza di sangue(2). Perché di questo si tratta, di pochi secondi che pure sono testimoniati con un’incredibile quantità di materiali filmati e fotografie. Ancora una volta viene da chiedersi se per le vie del capoluogo ligure in quella giornata si muovessero fotografi e videoperatori dalla spiccatissima sensibilità, capaci di intuire la tragedia incombente e di fermarla sulle pellicole e nelle schede di memoria o piuttosto la mole di documenti fotografici prodotta in quelle ore era tale da farci pensare che di tutti i momenti di quella giornata tragica ci siano immagini testimoni ora conservate negli archivi istituzionali, nelle agenzie, negli schedari dei professionisti, nelle sedi delle diverse compagini scese in piazza per protestare e, infine, nei cassetti di casa. Addirittura la testimonianza che pare nei giorni successivi più attendibile e che tutti i giornali riportano è quella di un fotografo free lance (3), quasi che in quella moltitudine la sua possibilità esegetica fosse più significativa proprio per l’abitudine del mestiere che la collettività pare riconoscere. Quasi che, in quella moltitudine di testimoni sbigottiti, quello che il fotografo vede e può raccontare sia per sua natura più affidabile come documento. L’equivoco della foto come portatrice di verità pare irrobustirsi col tempo. A dispetto delle acquisite consapevolezze di chi indaga le fonti. A dispetto di chi resta in terra.





La conclusione di questa nostra riflessione ci porta ancora a ritenere che non è così azzardato affermare che più che grandi fotografi esistano grandi fotografie ma, nondimeno, certe figure autoriali hanno saputo negli anni costruire un lessico complesso e raffinato che è diventato pagina privilegiata per raccontare la nostra storia recente.

Le immagini che nella società moderna hanno un’autorità praticamente illimitata sono infatti soprattutto immagini fotografiche, e la portata di questa autorità deriva dalle caratteristiche proprie delle immagini prese da macchine fotografiche.” (4).



note


(1   1)     Il G8 finisce nel sangue. Ucciso un manifestante. La Repubblica, 22 luglio 2001.
(2)     2)        Una rassegna dei materiali fotografici e video è contenuta in rete sul sitowww.piazzacarlogiuliani.org.
(4)    3)       Un primo comunicato stampa dell’ANSA, datato 20 luglio 2001, h. 20.16, recita:“Ho sentito due colpi. Pensavo fossero in aria invece ho visto cadere un ragazzo”. Bruno Abile, fotografo freelance di Parigi, racconta la sparatoria nella quale e' rimasto oggi ucciso un giovane a Genova. Questa testimonianza, arricchita da particolari, viene successivamente riproposta da molti giornali italiani.
(5)   3)          Addirittura l’esame autoptico della salma di Carlo Giuliani, un documento possibilmente basato sull’analisi scientifica, farà riferimento alla documentazione fotografica: Tenuto conto dell’altezza della vittima (165 cm) e della traiettoria balistica del proiettile bisogna ritenere che il feritore fosse più alto del Giuliani o meglio (alla luce anche della documentazione fotografica dei fatti) fosse in posizione elevata rispetto alla vittima. (il verbale è consultabile per intero sul sitowww.piazzacarlogiuliani.org).
(6)  4)  Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1992, pag. 132.





Con gli occhi delle donne



Premessa.
Ogni giovedi dalle 15 alle 16 su www.ondefurlane.eu c'è Convoy, trincea d'ascolto un programma in cui si parla, io parlo per la santa precisione di fotografia alla radio. Anche di fotografia a ben vedere. In appendice alla trasmissione carico sul blog il racconto di alcune delle immagini evocate dai microfoni, giusto per dare una possibilità in più alle fotografie di esistere oltre la mera nozione che ne abbiamo sfogliando le riviste e guardando sui muri delle città.



1936.

I braccianti arrivano alla fattoria provenienti dalle contee vicine ma anche dagli altri stati. In treno, viaggiando su carri merci presi al volo, sempre con il rischio di essere scoperti e riempiti di botte da quelli delle ferrovie. Altri arrivano in auto, non certo belle macchine fresche di fabbrica, piuttosto rottami precari e rugginosi che hanno preso il posto dei carri dei pionieri e sono mezzi di trasporto ma anche letto e cucina e tetto. Per tutta la famiglia. Gli accampamenti sono pieni di bambini laceri, almeno di quelli che ancora non sono stati avviati al lavoro agricolo. Sono ormai anni che quella multiforme comunità si sposta inseguendo i ritmi della stagione agricola. Declinando l’esistenza soltanto al presente.
Dorothea Lange si aggira per anni tra quei volti segnati ed è parte di quella comunità, Di più, è la possibilità offerta alla memoria di quella gente disperata. La Lange va in giro aggrappata con ostinazione a suo apparecchio fotografico, con l'ossessione della realtà, in contrapposizione alle foto finte e stucchevoli dei pittorialisti, i fotografi che volevano realizzare foto che sembrassero quadri. Se ne va in giro, Dorothea, portandosi addosso il segno della poliomelite trasformata nel vantaggio di un passo diverso per un'attenzione diversa. Ha la premura di raccontare le cose più fragili, ben sapendo che sono quelle che possono dissolversi da un momento all'altro. Si è dedicata per la parte più consistente della sua esperienza fotografica, a documentare il reale, senza infingimenti, senza espedienti. Le sue foto compaiono nelle riviste dell’epoca e sono il racconto di quei giorni drammatici, comprensibile anche da chi non sa leggere.
I braccianti si sono radunati nell’area della California dove in quel periodo si raccolgono i piselli destinati all’industria conserviera. Chilometri e chilometri di monocolture. Sistemati ancora una volta alla meglio. Al campo c’è anche Florence Owens Thompson,. Trentadue anni e sette figli sono le cifre significative dell’esistenza di questa donna. Dorothea è un’abitudine per quella gente e ormai nessuno fa più caso alla fotografa dal passo incerto che si aggira tra i rifugi di fortuna. Nessuno si mette in posa e quello sguardo fissato nel vuoto, incorniciato tra i corpi avvinghiati dei bimbi è il racconto potentissimo di quell’epoca. Al punto da diventare una delle icone del Novecento, e una delle pietre miliari della storia della fotografia di tutti i tempi.

Dorothea Lange, Madre migrante, California, 1936


1984.

Il campo profughi di Peshavar è una distesa infinita di tende. Sono cinque anni dall’intervento massiccio dell’esercito sovietico. Sono cinque anni dall’arrivo dei carrarmati con la stella rossa. Gli elicotteri con il loro palpito di morte, hanno cominciato a volare sui villaggi. Bombe, agguati nella notte, uomini che partono dal villaggio senza più tornare. Questa storia Sharbat Gula la conosce bene. Lei è una Pashtun, il suo è un popolo fiero che resiste in quelle terre martoriate da una guerra eterna. Cambiano i contendenti ma è sempre guerra e sempre tragedia per le vittime indifese. Sharbat Gula è solo una ragazzina ma ha già dovuto fare i conti con un’esistenza segnata dal dolore. Ha perso la sua famiglia ed è arrivata al campo profughi in Pakistan dopo mille traversie. Quel giorno è nella tenda che lì usano come scuola, giusto per non perdere la speranza di un ritorno alla normalità. Steve Mc Curry ha scelto di raccontare con le sue foto la tragedia della guerra. Beirut, Jugoslavia, Cambogia, Filippine, guerra del Golfo, Afganistan sono gli scenari in cui realizza i suoi scatti, sempre caratterizzati da un uso intensissimo, drammatico del colore. Ha imparato a vestirsi come i soggetti che intende ritrarre, lascandosi assorbire dall’ambiente che lo circonda, diventandone parte. Ha appreso la lezione dei grandi maestri di reportages e si muove nel campo profughi con lo stesso rispetto di Dorothea Lange tra i braccianti, tra gli ultimi. Il ritratto di quella ragazza, ancora non lo sa, diventerà di lì a poco una delle più famose copertine di tutti i tempi. Diciassette anni dopo tornerà sui suoi passi e ritroverà Sharbat, ora madre. L’esercito dell’unione sovietica se n’è andato, anzi è sparita dagli scenari internazionali la stessa Unione sovietica, ci sono stati i talebani, poi gli americani con i loro alleati e i terroristi islamici e di nuovo gli integralisti. Tutti carichi di armi e rabbia. Il tempo, quel tempo lì fatto di guerra e dolore e paura, ha segnato il volto della donna ma gli occhi sono ancora quelli rubati sotto la tenda a Peshavar e raccontano come nessuna immagine di soldati saprebbe fare il dramma di un’esistenza senza pace.
Steve McCurry ha imparato a raccontare la storia dal basso facendo suo il linguaggio dei reporter che per primi hanno scelto di occuparsi della foto sociale. Ha saputo condividere la lezione della Lange e ha deciso di raccontare attraverso gli occhi di chi subisce.

Steve McCurry, Ragazza afghana, Peshavar, 1984







mercoledì 18 settembre 2013

Fotografia e didattica della storia




 Qui parlo di fotografia e didattica della storia.


https://www.youtube.com/watch?v=PPuRis-3mJg








A immagine e somiglianza








Vengo da mille mestieri e faccio mille mestieri. Nessuna possibilità di fare dunque bene davvero. Frugo anche nella memoria, con le dita veloci del borseggiatore sull’autobus carico di sudori e bestemmie di una qualsiasi ora di punta. Di buono c’è che le mie vittime designate non subiscono gli scossoni delle frenate brusche e gli sguardi astiosi di quelli dello “scusi, alla prossima scende”, limitandosi a passare da uno schedario a un tavolo, nei casi più fortunati, o, ed è peggior sorte, a venirsene via appiccicate tra loro e vergognose dell’ingiuria del tempo. A me viene chiesto di guardarle le prede mie, strana beffa per i miei occhi incerti, lasciando a loro il compito di accendere emozioni. L’approccio scientifico lo conservo per quelli dall’altra parte della porta, giocandoci l’un l’altro questa mano a bluffare, con presunte professionalità che fanno da paravento a certi intimi entusiasmi. Il lavoro si concretizza in volumi e mostre che non rendono mai piena giustizia, guai se così fosse, del mio motore originario ma che consentono a me di campare e a altri di vivere, sempre con un forse davanti, attraverso il materiale da me selezionato e proposto, un proprio percorso emotivo. Se fin qui non sono stato poco chiaro, goffo espediente di scrittura per aggrapparmi alla vostra attenzione, tanto vale rendere più esplicite le mie mosse svelando, e confido che qualcuno ci sia già arrivato da solo, che l’arte mia è quella di maneggiare anche fotografie e di farne io stesso, cercando di istituire delle riserve testimoniali protette in una realtà dove i bracconieri di ricordi la fanno da padroni. Sull’arbitrarietà del gesto non v’è dubbio e mai sarò qui a sostenere l’imparzialità dei miei sentimenti, che mi ostino a sottolineare influenzano il mio lavoro oltre la dimestichezza con il metodo scientifico che pur cerco di foraggiare e tenere robusto dentro di me. Un metodo che parte dall'idea prima che la verità non esiste. Lascio da parte, almeno tra noi ce ne sbattiamo del cerimoniale, le riflessioni sul valore documentale e sulla possibilità che all’interno di una stessa fotografia siano contenute infinite frecce semantiche in grado di sollecitare specializzate curiosità, centrando l’attenzione su di una sorta di traccia emozionale che non è meno importante dell’implicazione razionalistica che mi spinge a selezionare un’immagine in particolare. Mi sono ritrovato a riflettere su questi meccanismi quando il mio mestiere è scivolato dalla realizzazione di mie storie fotografiche a una più generica misura della narrazione fotografica che passava dal lavoro di altri, realizzato in tempi diversi e in luoghi variati, perchè le coordinate croniche e topiche sono un nesso sulla probabilità per uno che non si fida della verità. Qualche anno fa, son troppi se ci penso, portavo a conclusione un volume che mi era costato diversi mesi di lavoro vagando per gli archivi della penisola. Mi servivano fotografie italiane scattate in un periodo compreso tra il ‘53 e il ’67 e ovviamente la mole di materiale che mi è passata davanti in quei mesi supera ogni possibile fantasia. Sui criteri della selezione, considerando quella sorta di coazione a ripetere che caratterizza molti dei fotografi di quegli anni rispetto a certe tipologie, la varietà non era tale da consentire impennate narrative particolari ma il lavoro non si presentava certo noioso. Ho seguito la costruzione del volume fino nei suoi particolari minimi e quando a fine marzo l’ho visto nelle vetrine delle librerie e in cima alle classifiche di vendita nazionali, bontà loro, ho cominciato il giro delle presentazioni e delle interviste guardandomi bene dallo sfogliare un testo che pensavo non mi potesse riservare sorprese. Soltanto a fine estate, con rispetto per il mio metabolismo tartarughino, e in modo piuttosto casuale, mi sono ritrovato a risfogliare il volume con curiosità, provando una certa emozione davanti alle immagini che non erano più soltanto la testimonianza efficace di un determinato periodo storico ma che, per averle maneggiate, annusate, spostate, scartate, ripescate e guardate ancora, fino negli interstizi minimi che la sensibilità della pellicola mi consentiva di indagare, sono parte della mia memoria più viva. Guardando alcune fotografie mi sono ricordato di quando per le mie ricerche mi sono fermato a Firenze per una decina di giorni e, per ragioni che mi diventa difficile spiegare mi capitava talvolta, sempre a dire il vero, di rimanere a dormire la notte in macchina, parcheggiato sulla riva dell’Arno. Di fronte alla biblioteca nazionale per intenderci. La notte si popolava di personaggi, luci e odori tra le cui pieghe il mio sonno trovava brevi tregue e l’alba mi beccava sempre lì, con il coltello aperto nascosto sotto il maglione che rischiava ogni volta di aprirmi lo stomaco e la sveglia sul cruscotto che suonava quando ormai ero già desto. In seguito una copia del libro l’ho portata anche al barista che in quei giorni, senza chiedere mai più di quello che avrei voluto rispondere, mi vedeva entrare cisposo e arruffato e risortire ripulito e reso elegante dai vestiti smessi di mio padre che detto così sembra roba da poco ma era tutta stoffa buona e morbida che ancora indosso a distanza di venti anni.. Nel corso della giornata la mia ricerca riprendeva forma e tornavo ad essere il dottore di qua, dottore c’è questo e dottore posso offrire, che se solo avessero sospettato chissà come mi avrebbero guardato. A distanza di tempo, riguardando le fotografie su cui lavoravo in quel periodo non ho potuto fare a meno di pensare con una certa tenerezza a quei giorni e ho constatato divertito che il materiale selezionato a Firenze, l'archivio del Mondo di panunzio conservato in un sottotetto della biblioteca, è tutto in relazione con la realtà marginale, la periferia depressa e i mille piccoli espedienti della sopravvivenza disperata. Indubbiamente, per il mio libro questi sono temi interessantissimi ma l’influenza della mia esperienza di quei giorni sugli esiti della ricerca è palese.


Lavorando con le fotografie si finisce per fare i conti con il loro potere evocativo che, per la loro stessa natura, agisce in tempi brevissimi su di noi, bastando anche un’occhiata distratta per sollecitare ricordi ed emozioni e mentre scrivo questi appunti disordinati qualcuno magari starà sfogliando il mio volume riconoscendosi in un volto, in un luogo o in un semplice gesto o, e la catena diventa ossessiva, correrà col pensiero al giorno dell’acquisto del libro stesso, alla faccia della commessa, al bar dove fanno quel caffè di merda e via di questo passo. Per quello che riguarda me, con i soldi di questo libro ho comprato una macchina molto più spaziosa di quella di prima.





martedì 17 settembre 2013

Fotografie a memoria






La ricerca  storica tradizionale ha basato, fino a tempi relativamente recenti, la sua struttura metodologica sull’analisi e l’esplorazione di precise tipologie di fonti, che erano considerate più “affidabili” rispetto ai dati forniti. Allo scopo l’esperienza dello storico era tutta circoscritta agli ambiti istituzionali, come archivi pubblici, biblioteche, musei, fondi privati di particolare consistenza. Anche in questi precisi ambiti il ricercatore tendeva a circoscrivere ulteriormente il suo terreno d’indagine, evitando di prendere in considerazione alcune tipologie di fonti. Negli ultimi anni la metodologia della ricerca ha accettato di confrontarsi con le fonti  in maniera molto più ampia e articolata. Lo “storico orco” teorizzato da Marc Bloch, fagocitatore di tutti gli ambiti documentali e in grado di analizzare le diverse tipologie di fonti riportandole sempre sul piano prioritario dell’ambito storiografico, è ormai una figura metodologica consapevolmente accettata dagli studiosi. Alle fonti tradizionali si affiancano adesso bacini documentali meno esplorati e il cinema, la fotografia, la musica, la pubblicità, la narrativa, il fumetto, la grafica, la cultura materiale, s’ intrecciano e si confrontano, fornendo spesso aspetti inediti e inconsueti delle realtà storiche e sociali che s’ intende analizzare o, ancora, rafforzando con ulteriori prove, la lettura di un determinato periodo già analizzato attraverso elementi consueti alla ricerca. Un impegno metodologico di questo tipo pretende una robusta preparazione del ricercatore che non può permettersi di indagare in modo superficiale le diverse tipologie di fonti ma che deve altresì essere edotto dei problemi di gestione tecnica dei materiali o di veicolazione degli stessi in rapporto al periodo di produzione. Risulta evidente che la natura infinita di informazioni possibili da confrontare sollecita un rapporto fitto di scambio all’interno della comunità scientifica e la costituzione di specialità d’ambito che di volta in volta possono essere coinvolte. Altro è l’ambito proprio dello storico dell’arte o del cinema, più specificamente vocati alla dissezione di determinati materiali, allo storico possono servire magari solo alcuni indizi contenuti nella tela o nella pellicola ma un confronto interdisciplinare diventa irrinunciabile e consente di acquisire altri elementi.
 
Il confronto tra le diverse fonti consente un’esposizione dinamica della ricerca storica, che permette di trasferire informazioni in maniera accattivante ma sempre senza banalizzare i contenuti. Soprattutto a livello didattico, la possibilità di leggere un periodo storico, attraverso l’interazione dei testi tradizionali e una rassegna di film o una panoramica dei linguaggi  pubblicitari dell’epoca, o, ancora, attraverso la canzone, può offrire la possibilità di lavorare con la variazione dei temi, su una soglia d’attenzione difficilmente raggiungibile attraverso l’esposizione tradizionale.
Proviamo a fare un esempio d’approccio metodologico: la lettura di un’immagine non è solo funzionale all’analisi tecnica o dei contenuti cosiddetti espliciti. Un film non deve necessariamente essere filologicamente  corretto nella ricostruzione del periodo e dei luoghi in cui i suoi personaggi si muovono ma spesso fornisce indizi sulla storia sociale o politica di un determinato contesto che  rischiano di passare inosservati. Nel 1963 il regista Ugo Gregoretti propone nelle sale italiane la sua prima opera cinematografica importante, sulla scia dei successi televisivi di questo autore. Omicron, questo il titolo del film, è uno stranito film fantascientifico in cui un extraterrestre  entra nel corpo di un operaio torinese, interpretato da Renato Salvatori, e inizia la sua esplorazione del mondo degli umani. La pellicola segnò inesorabilmente la carriera cinematografica di Gregoretti che non seppe più recuperare l’insuccesso di sala. A onor del vero, a volte la storia raccontata nella pellicola risente di ingenuità piuttosto evidenti che ne fanno a oggi un prodotto visto solo da cultori. Per lo storico però questo prodotto minore consente la lettura di determinati aspetti sociali significativi.  L’extraterrestre arriva alla catena di montaggio e l’uomo si prende la rivincita sulla macchina che dal celeberrimo Chaplin di“Tempi moderni” aveva infierito sull’elemento umano, ridotto a mero ingranaggio produttivo. Stavolta l’uomo è tale solo nell’aspetto esteriore e lavora alla pressa con un ritmo forsennato, fino all’esplosione della macchina utensile. Ai colleghi sbigottiti da tale incremento produttivo il caporeparto sottolinea che da adesso si lavora a quel ritmo e che non vuole più sentire parlare di supersfruttamento. A questo punto lo storico è sollecitato. Il concetto di supersfruttamento fu materia di dibattito sindacale solo nel ’63, anno di produzione del film. Successivamente si ritenne inutile distinguere tra sfruttamento e supersfruttamento e probabilmente di questa polemica restano solo brandelli scomposti negli archivi ma in questa pellicola, pure minore e sicuramente, per la scelta del regista, lontana da temi marcatamente realistici, ne abbiamo sicuro riferimento. A questo punto il laboratorio attivato comincerà a ricostruire gli anni del Boom economico attraverso le canzoni dell’epoca, le fotografie, i giornali, la pubblicità e gli apparati multidisciplinari svilupperanno in modo naturale un possibile prodotto multimediale.
Abbiamo scelto un esempio piuttosto specifico e complesso nella gestione perché risulta evidente che altri materiali danno immediata ragione dei possibili collegamenti ma se tutto è fonte ci si può applicare anche su temi considerati marginali e poco utili. Certo se si vuole parlare di guerra di resistenza e si utilizza “L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo i riferimenti sono molto più diretti ma è lo storico che ci può raccontare l’importanza di una pellicola sui temi della resistenza che ha per protagonista una donna e che viene realizzato nel 1976, anno in cui la figura femminile  è al centro di aspre lotte di rivendicazione.
   
L’interazione delle diverse tipologia delle fonti restituisce efficacemente  i quadri politici, economici e sociali. Altro è raccontare il boom economico dell’Italia degli anni Sessanta attraverso le tabelle di analisi demografica e i grafici che danno ragione degli incrementi produttivi, altro è affiancare a questi dati le pubblicità dell’epoca dove categorie sociali come la casalinga e il giovane, compiutamente espresse in quel periodo, hanno una loro evidenza e sono in relazione coi beni di consumo e le abitudini nuove. A livello didattico non deve sfuggire il rapporto che corre tra l’utente medio e i materiali proposti. Ci sono immagini, segni, gesti che sono entrati ormai nell’immaginario collettivo come iconici di una determinata epoca. Se mostriamo un’ utilitaria Fiat 500, sappiamo per certo che il richiamo agli anni del boom è piuttosto automatico e conviene lavorare sul dato acquisito per fornire sicurezza e consapevolezza. Successivamente all’immagine della famiglia stipata nell’utilitaria  affianchiamo la pubblicità di un frigorifero e raccontiamo che sui mercati internazionali l’Italia si colloca come massimo produttore di quell’elettrodomestico. Il dato è interessante, curioso ma soprattutto reso meno lontano dalla vicinanza con la nostra utilitaria che fornirà  un ponte tra le informazioni acquisite e quelle nuove.
Attraverso questo confronto si potranno definire le differenti identità culturali, i modi sociali mutuati da ambiti esterni e più in generale avere una visione complessiva degli eventi storici. A questo punto proponiamo un film dell’epoca che mostra una famiglia in vacanza, lo associamo a una canzone come “Con le pinne, il fucile e gli occhiali” e possiamo permetterci una riflessione sul tempo libero e sulle ferie di massa e, più in generale,  sulle modalità di sviluppo della società industriale.
 
 
Nell’ottica del “tutto è fonte” nuovo interesse destano i materiali conservati all’interno dei singoli nuclei familiari e nelle piccole comunità, supporti fondamentali di certo lessico familiare e conservati come traccia di memoria domestica. I riti di passaggio fondamentali, la nascita, la formazione di una coppia, la morte, trovano testimonianza efficace nei materiali conservati nei cassetti delle case di tutte le famiglie, indipendentemente dall’estrazione sociale. Lo storico trova spunti alla ricerca anche in elementi che all’origine non rivestivano interesse specifico. Una foto può ritrarre un lontano parente e per chi la possiede è già supporto alla memoria, all’emozione ma magari lo storico troverà più interessante il tram a cavalli che si intravede alle spalle del personaggio ritratto. In ogni caso non c’è un ordine gerarchico di interesse dello studioso nei confronti delle fonti e anche quelle domestiche possono rivelarsi efficaci testimoni.




Memoria fotografica

Per alcuni anni della mia vita ho catalogato beni culturali. Giravo per la penisola e scattavo centinaia di foto e compilavo schede. Prevalentemente il mio lavoro era la documentazione fotografica da affiancare alle schede di altri ma la straccia laurea che mi porto addosso e i corsi successivi mi abilitavano anche alla gestione della scheda ministeriale e non mi sono fatto mancare niente. Da solo o con i miei soci di allora, mi alzavo la mattina, caricavo la macchina con i valigioni pieni di obiettivi e pellicole e corpi macchina e cavalletti e lampade e stativi e filtri e pannelli riflettenti e cavi e prolunghe e ponteggi e tra battelli e panini e bibite. Piovesse o ci fosse il sole si partiva. Le norme ministeriali parlavano chiaro. Ogni scheda di un oggetto degno di menzione in seno al catalogo dei beni storico artistici, e già qui c’erano ampi margini di manovra e fantasia da impegnare, pretendeva le coordinate croniche e topiche, la descrizione e una stampa in bianco e nero grande, i provini a contatto e il negativo. Con le campagne di catalogazione ci ha campato per anni un’intera generazione di laureati in storia dell’arte, architettura e affini. A proposito del fatto che non mi  sono fatto mancare niente io seguivo come fotografo anche le campagne di catalogazione di antropologi e assimilati, compilatori entusiasti delle formidabili schede FK e qualcosa  concepite per la catalogazione dei beni demo-etnoantropologici. Quella parte del lavoro era davvero incredibile. Giravo le campagne a fotografare utensili da lavoro, pentole, qualche raro strumento musicale e ancora mi ricordo i tipici campanacci documentati in Carnia con la scritta all’interno “made in France” o la lunga teoria di zappe del Mugello che ha occupato più di una delle mie giornate. Ho lavorato prevalentemente nel Triveneto e in Toscana, ma m’è capitato di muovermi anche in altre zone, sempre carico all’inverosimile di tutta quella ferraglia che ogni giorno mi camallavo tra chiese, musei, case perdute e vicoli e scavi e catacombe per fare ancora la magia del fotografo. Già, quando arrivavamo nei paesini, nelle pievi di campagna, nei conventi sperduti d’appennino, era come mi immagino dovesse essere l’arrivo dei musici e dei saltimbanchi in epoca medievale. La gente veniva a vedere attratta dai mila watt delle nostre Janiro aggrappate ai barracuda Manfrotto. Una suggestione in bilico sull’idea che tutti si portavano addosso del racconto del cinema e della televisione visto dalla parte del narratore. Ti facevano le domande, ti si sedevano vicini in trattoria e ti trattavano come uno importante e ti offrivano un bicchiere, due bicchieri e tu bevevi e pensavi che dopo saresti rimasto quattro ore in bilico sui ponteggi a decine di metri da terra e speravi nella buona sorte. Poi c’erano i giorni in città e la gente e il traffico e scaricare e spiegare al vigile. Scoprivi presto che tutto s’aggiustava se dicevi “lavoriamo per il ministero”, e bada che noi si lavorava per ditte o enti che appaltavano da altre ditte più grosse che a loro volte redistribuivano lotti di lavoro ciclopici assegnati da ‘sto lontanissimo ministero, sorta di galassia centrale che a noi pianeti ai lembi dello spazio conosciuto era dato solo intuire. Ora in qualche corridoio delle segrete ministeriali giacciono migliaia di scatti miei, che si portano addosso il freddo di tutti quegli inverni che ho passato chiuso nelle chiese e nelle cripte e nelle tombe a fotografare e misurare. Il freddo, quello non smetto di ricordarlo, che a volte ci abbracciavamo alle lampade roventi per riprendere l’uso delle dita. E dicevamo delle città. Lì le cose cambiavano, non era più il paese con l’oste che era anche guardiano della pieve e ti apriva certi catenacci rugginosi e  un po’ ti guardava sospettoso un po’ gli scappava, e quante volte è successo, di chiederti se la domenica che si sposava la figlia si poteva scattare due foto così in amicizia. A Firenze fotografavo in Santa Croce coi turisti che arrivati in prossimità del mio cavalletto e dei miei stativi smettevano di parlare e camminavano in punta di piedi, a rischio di sovraesporre col rumore le mie delicate pellicole. Un mondo recente, roba che ha meno di vent’anni da misurare sul ricordo e che pure è stato spazzato via. Come un mucchio di cose di questi tempi. Un mucchio di cose che sento mie. Nel silenzio spazzate via. Pagine, pellicole, vinili, e voci che spariscono dalle cornette dei telefoni e facce che di colpo smettono di dividere i giorni con te e se ne vanno senza parole e senza saluti e se ce ne fosse la possibilità di dirsi qualcosa resterebbe l’imbarazzo di chi rimane. Quasi una colpa mentre il tuo mondo muore e tu resisti perché hai imparato a resistere e sei fottutamente coriaceo e di morire non se ne parla nemmeno da morti. E a sopravvivere ero già bravo allora e mi sono trovato a mangiare con gente che non ho mai più rivisto e ho sorriso a femmine di passaggio con la distanza incolmabile tra noi che l’esposimetro Gossen mi confermava. Del resto l’esposimetro fornisce molte più informazioni di quello che si crede ed è un potente generatore di stati d’animo, da uno stop all’altro.. Ho dormito in auto e case che non saprei descrivere perché ci arrivavo al buio e me ne andavo all’alba. Ho comprato formaggi da pastori che mai più saprò ritrovare. Una volta a Sansepolcro, mentre lavoravo su Piero della Francesca e affini, ho mollato le attrezzature all’albergo del Cavaliere che era il nostro personale angolo delle meraviglie e che aveva nell’enorme titolare, giocoliere di piatti e sapori, la figura di riferimento e sono partito. Con la moto mi sono ficcato nelle curve d’appennino per stare con Ste una notte e ho messo una ricotta comprata lì per lì nel bauletto. Ancora calda. Quando sono arrivato, complice la maledetta vibra del monocilindrico della mia Yamaha XT Tenerè sempre sia lodata, la ricotta aveva invaso il bauletto e era montata a neve aumentando di sei volte il suo volume originario. Ste ha sentito la moto planare nel giardino, allora vivevamo a Sinalunga, s’è affacciata ridendo della mia follia, che è un po’ un marchio di fabbrica che mi porto addosso da sempre, e io fiero di me ho spalancato il bauletto. La ricotta è esplosa in giro e ho guardato Ste con l’aria stupita di chi ha inventato la bomba atomica mischiando detersivo per i piatti e marmellata.
Tornando alla catalogazione dei beni culturali. Musei e chiese delle contrade senesi, pievi sul carso triestino, ossari veneziani con la puzza di umido a tagliarti la gola, le location del mio campare erano sempre variabili e imprevedibili e mi arrampicavo su ponteggi montati con i pezzi del meccano e una volta ho visto precipitare la mia Pentax seisette da una trentina di metri e polverizzarsi sulla nuda roccia. Sono stato perseguitato da preti resi pazzi dall’astinenza, che mi facevano discorsi deliranti, ho fatto amicizia con incredibili frati di montagna che avevano le api e raccoglievano i funghi. Dalle parti di Montalcino ho conosciuto un prete cacciatore che aveva distrutto un maggiolino, la Volkswagen mica l’insetto, per investire di proposito i cinghiali che nella notte aveva trovato sulla sua strada. Ci rimasi a cena e mi diede la grappa fatta da lui e mi mostrò le cantine e il congelatore con i lacerti di cinghiale tutti ordinati che nemmeno nella più efficiente delle morgue. In una piccolissima pieve senesem a non vi dico quale, ho ritrovato in una madia la testa mummificata di una monaca, con la pelle rossa come lo sciroppo di amarene e quattro denti che sporgevano, ficcata in un reliquiario con le vetrinette polverose. Un reperto da film dell’orrore, lontano dalle altre migliaia di reliquie: Mi sono immaginato che la monaca, forse in odore di miracoli e guarigioni, forse strega o chissà cosa, morta sul letto era oggetto dell’attenzione di un segaccio o di una mannaia che s’occupava del suo collo così da poterla tramandare fino a me nella migliore tradizione dei daiaki del Borneo di memoria salgariana.
Ho interagito con catalogatrici che già respiravano il lezzo del precariato a oltranza e s’aggiravano per le navate e le sagrestie come bestie ferite. La mia non era una situazione migliore ma io vivo sempre le cose per quello che di curioso sanno offrire. Mi sono misurato sul senso del bene, del male e del peccato per vincere la solitudine di quelle giornate di fottuto freddo chiuso nei luoghi sacri. Ne ho tratto debite conclusioni. Sospeso sulle impalcature ho visto una donna ben vestita rubare le elemosine e se sai che effetto fa una lampada da mille che si surriscalda e ti esplode in faccia già lo immagini che anche la mia condotta e le mie invocazioni non hanno potuto tenere in debito conto i luoghi in cui mi trovavo. Un giorno, sul Trasimeno, la macchina, ah già era una incredibile Renault Fuego nera duemila a gas, m’ha lasciato. Il meccanico che è venuto a ridarle vita ha visto le attrezzature e mi ha chiesto se facevo il cinema “No, faccio le foto” “Che fai, le foto porno?””No, fotografo i monumenti e le chiese””Per fortuna, se facevi le foto porno a forza di vedere la cicalina spalancata ti veniva magari a noia, ma se ti vengono a noia le statue che te ne frega”. Aveva potentemente riassunto il senso della mia vita.
Obiettivi decentrabili, scatti flessibili e rullini da caricare nei magazzini e fissaggio e tank e pentaprisma. Tutte parole lavate via da questa pioggia che mi mangia a bocconi voraci i giorni, il tempo e l’esperienza. E in bocca il gusto al mentolo dei rullini Ilford medio formato, che quando li avvolgevi dovevi fissarli con la linguetta adesiva come un francobollo e s’erano pensati quel gusto acidulo per far sorridere. Mi sono inventato altri mille mestieri, che quella stagione lì m’è morta mentre la tenevo stretta al petto come il più amato dei miei cani. Uno dei miei compagni di allora, mille se ne sono andati e qualcuno è riuscito a farmi pure schifo ma è nella regola, lo conservo come un fratello particolare e il suo nome se lo porta addosso mio figlio. Poi sono arrivate le macchine digitali e ho continuato a misurare la mia vita sul ritmo dei tempi e diaframmi ma erano più spesso le foto d’altri a occupare il mio tempo. Già, il tempo e la verità che pare occupino il senso compiuto delle fotografie e io non ci ho mai creduto. Nelle foto la verità non esiste. Ma avremo modo di parlarne. Intanto quella stagione è passata. In un altro maledetto sudario di silenzio. Tutto si trasforma ma non sempre ci riguarda davvero. Ma in fondo non è così importante. Almeno immagino non lo sia per gli altri. E questo vi può bastare.