domenica 30 novembre 2014

TEMPO DI UCCIDERE, TEMPO DI MORIRE







Giorgio Olmoti, tempo di uccidere, Torino 2014




“Ci fu un tempo in cui gli uomini, per fare le fotografie, dovevano procurarsi la pellicola e erano già più fortunati dei loro antenati che avevano a disposizione solo delle lastre di ferro, di vetro, di marmo per l’ultimo scatto. Ci fu ancora un tempo, ragazzo mio, in cui le pellicole erano tante e ognuna serviva a qualcosa di speciale ma poteva essere impiegata un po’ per tutto. Al massimo nella tua macchina fotografica, una volta caricata, c’erano trentasei possibilità ma qualche produttore di pellicola abbondava e se eri fortunato ne potevi fare anche trentotto a spanne. La pellicola era una sorta di nastro magico che aveva le sue ossessioni e un comportamento compulsivo tipico di quelli che fanno cose incredibili ma non sanno trovare misura nella quotidianità. Andava maneggiata al buio, era l’unica vera possibilità dell’umano di confrontarsi con l’esperienza tattile per bella necessità e non per diletto, sempre escludendo la pratica erotica in cui quello che tocchi può trasformarsi in quello che senti e fai sentire. Dovevi starci attento alla pellicola, era cosa viva e soffriva il caldo e odiava la curiosità poliziesca, uguali sempre io e la pellicola, all’aeroporto con i raggi fruganti nel bagaglio che rischiavano di innervosirla e alterarla. Ci fu un tempo, credimi giovane amico, che quando avevi scattato, potessi fartelo sentire quel singhiozzo tra le dita dell’otturatore che mordeva la luce, non s’era concluso il rapporto con l’immagine, con il racconto. Bada bene, il tuo racconto, proprio il tuo, solo tuo. Dovevi riavvolgere la pellicola e sviluppare e stampare e ogni volta intervenire proponendo soluzioni che erano la magica interazione tra caso e necessità. Per quanto scientifico e misurato fosse il tuo processo la variazione era una costante ineliminabile e i risultati sempre frutto di un equilibrio che aveva ragioni inafferrabili. Forse la ragione di tutto questo sta nella disposizione e non parlo dell’animo ma piuttosto della grana della pellicola, di quei corpicini reattivi che vivevano nella gelatina della pellicola e che ne sapevano di fisica e di chimica e di emozione. Erano disposti casualmente quei granuli, alogenuri d’argento che erano preziosi oltre la nozione che gli indici di borsa possono raccontarti di quel metallo perché erano contenitori efficienti di memoria, erano le parole per scrivere in un altro modo. Ora i pixel fanno il loro lavoro con buona lena e bella possibilità ma stanno ordinati matematicamente e non conoscono la magia del trovarsi per caso. C’era un tempo che per fare le fotografie dovevi spendere dei soldi che ripartiti per ogni singolo scatto erano un senso della tua scelta estetica. Attivavi motori critici perché mica potevi scattare a raffica tutto quello che vedevi. Un processo di sintesi che negava mille possibilità che il presente, percorso dalla piena della fotorrea che gonfia le reti, soprattutto quelle a alto tasso di socialità, e le memorie sempre più capienti dei nostri archivi domestici. Riducendo per assurdo la possibilità del racconto, la sua meravigliosa personalizzazione. Vabbè c’era quel tempo e fare le foto m’ha dato da vivere e m’ ha dato da raccontare con gli occhi, e quando quel modo di trovare m’è morto tra le braccia come il migliore dei miei cani io non sono più riuscito a raccontare serenamente con le immagini. Certo ne scatto ancora di fotografie, come tutti, e devo dire che aver saputo domare certi carrarmati di acciaio e lenti mi serve ora a ottenere risultati che per l’utente medio sono generatori di continue meraviglie. Mi sono affezionato alle mie reflex digitali, ho una macchina fotografica che resiste agli urti della mia vita e questo è un vero prodigio della tecnologia. Non ho mai odiato il progresso e le tecnologie che propone, anzi, ma c’era un altro tempo e sentivo di dovertelo raccontare, senza saperne nemmeno con chiarezza il motivo, forse solo perché quel tempo è la misura delle mie passioni di allora e di quelle di oggi e forse solo perché se tu sei mio figlio, nessuno meglio di te può dirsi misura delle mie passioni.”


Daniele si sta appassionando alla pratica del racconto fotografico e gli ho dato una delle mie reflex. Se l’è portata nella sua stanza e ha cominciato ad annusarla e a guardarci dentro e poi di nuovo annusarla. Come conosco quel corteggiamento, come riesco a leggere l’emozione dello scoprire e del conoscere. Continuo però, nel rispetto della mia personalissima pratica della Danipedia, a far finta di niente. Me lo sono visto tornare a cercarmi per chiedere  e voleva capire sul serio. A quel punto ho pensato che, per spiegarmi meglio, dovevo andare alle radici di quella storia e ho aperto il baule in cui conservo le macchine fotografiche e gli obiettivi e gli accessori che mi hanno dato da vivere per una parte consistente della mia vita. A dire il vero un mucchio di materiale, quando avevo bisogno di soldi, me lo sono venduto per un pugno di euro, ma quello che m’è rimasto lo terrò per sempre e non permetterò più a nessuno di comprarsi, a qualsiasi prezzo, altri pezzi della mia vita. Ho lasciato perdere le macchine medio formato e mi sono concentrato sulla venere cicladica di tutte le macchine fotografiche, sulla concupita dea della fotofertilità. Ho aperto una vecchissima borsa di pelle e ne ho cavato fuori una Niikon FM2, avrei potuto scegliere la progenitrice FM ma ho voluto concedere una possibilità al mio vezzo e quella è la macchina con cui ho raccontato meglio, non certo quella con cui ho lavorato di più ma piuttosto quella che si portava dentro i miei scatti più cercati, sempre facendo a morso e bacio con la luce e il buio. Volevo mostrarla a mio figlio, come a stendere la mano e a fargli vedere le linee mie che corrono verso una morte che c’è già stata mille volte.
La Nikon FM2 è un prodigio meccanico, scatta fino a un quattromillesimo di secondo e non ha nessun ausilio elettronico. Dentro è riempita di ghiere, molle e ingranaggi e scatta sempre, non c’è nulla che la possa fermare. Un sistema a orologeria che ti ronza tra le dita nelle pose lunghe e che mi dava la sensazione di poter scattare da lì all’eternità. Poi è andata com’ è andata ma questa è un’altra storia, che l’eternità è sempre la solita puttana e già sappiamo che non c’è da farci troppo conto. Ancora, il metallo sotto le dita e quelle ghiere da metterci la forza delle dita e l’odore delle foto. E io a spiegare la vita di coppia che conducono con studiata abitudine il tempo e il diaframma e la luce e lo specchio e il fiato tenuto fermo sull’attimo che è solo tuo e di Fresnel, che qua si parla di mettere a fuoco usando ancora l’acciarino mentre tutto attorno brucia di codici binari. E poi l’esposizione. Dentro il mirino di quella macchina c’è una potente lezione di sintesi per quelle di oggi oberate da dati e display interni e esterni. Nel mio ferro sempre lucente non ci sono molti dati ma un ausilio elettronico lo dobbiamo confessare. Una batteria regala vita a una sorta di semaforino a tre segni. C’è un più per il sovraesposto, un meno per il sottoesposto e uno zero, per la giusta esposizione. Avevo anche smesso di guardarli col tempo quei segni, che l’esposimetro era una cosa che ti portavi un po’ negli occhi a forza di misurare la luce e ancora oggi mi diverto a indovinare il sessantesimo sulle luci medie, rimanendo seduto al tavolino del bar e senza scattare mai. Quella macchina mi ha insegnato a salire la scala dei grigi e a dare un tono alle cose. E ne parlavamo seduti per terra io e Dani e eravamo compresi in quella complice condivisione e gliel’ho detto “ora dentro l’esposimetro non funziona perché quando quindici anni fa almeno, l’ho riposta, ho tolto le pile". Lui però guarda dentro e grida “Funziona ancora” e io penso che la suggestione a quattordici anni è cosa potente. Ma lui insiste e mi dice di guardare e quel cazzo di esposimetro pare riconoscermi alla pupilla e s’accende sul serio. Dopo tutto quel tempo. E io, che per una vita mi sono detto che quella macchina era immortale ma certo l’esposimetro e la sua pila sarebbero scaduti come il latte fuori dal frigo, ora faccio i conti con qualcosa che non avevo immaginato. Era rimasta lì ad aspettarmi. Dentro una borsa di pelle, affogata da una scorta mostruosa di rulli Tmax 6x6 che non userò mai più. Ora è qui sulla scrivania. Alla luce che è la mia luce. Com’è giusto che sia. Dentro le penne mie ci sono tutte le parole, dentro quella macchina fotografica tutto quello che ho visto e vedrò, per gli altri può non essere nulla ma per me e per Dani è una bella certezza e ora tocca a lui trovarsi una compagna di racconti.






martedì 8 luglio 2014

TRAIN DE VUE


Scontri in piazza De Ferrari, Genova, giugno 1960





Ieri era il 7 luglio. Ero in treno di ritorno da Bologna. Roba di lavoro. Ero sul Frecciarossa prima classe, il biglietto me l’hanno fatto e consegnato via mail ed è come viaggiare su una sede operativa della NASA, con tutti che si spalmano sul tavolino computeri smartofoni e tabletti in numero vario e sempre attivi e passano da una videata a un clic e parlano a voce alta dando ordini a qualcuno che forse viaggia in un altro vagone di quell’azienda vivace che si materializza tutti i giorni sui treni che sfrecciano per la pianura padana. Il 7 luglio dicevamo. Al ritorno, viaggiavo nel primo pomeriggio e ho evitato che m'afferrasse la stessa scena di pulsante euforia lavorativa, a cui oppongo albi di Zagor e quaderni scritti con la stilo e non per luddismo ma solo per acquisita pratica dell’andare, fosse anche in prima classe. Il viaggiatore viaggia leggero.  E ieri era il 7 luglio. Il vagone del ritorno era quasi vuoto e non c’era quel pulsare d’elettronica e di concitato procedere in punta di cravatta della mattina. Non c’era quel fare annoiato di quelli che chiedevano un succo di qualcosa e lo snack. Come lo vuole lo snack? Dolce o salato lo snack? Taralluccio o biscottiello? Che cazzo mi rappresenta lo snack? Sono salito sul treno a digiuno per rispetto al ricordo del pranzo del giorno prima a base di pappardelle e cinghiale, che mi verrebbe da dire “come non ci fosse un domani” ma quelli che scrivono così sono gli stessi che scrivevano “mitico” o “beato come un limone tra le cozze” e allora volo basso e mi tengo sul mio. Insomma salgo sul treno e vicino a me si siede un collega, che normalmente, nella vita reale dico mica in questo Bladerunner con cui mi misuro tutti i giorni, non ci avrei diviso nemmeno il palo dove piscio il cane. Attacca a farmi tutto uno spiego sui costi e la razionalizzazione e, non ci posso credere, prende un tablet e mi fa vedere delle slide. Faccio cose che stanno ficcate nelle pagine dei libri io di mestiere, nello stesso luogo dove lui si occupa della logistica, un posto che siamo la metà di mille e non ci conosciamo mai. Lui è entusiasta. Non gliene frega nulla dei miei silenzi e del mio guardare fuori dal finestrino. Ha imparato ‘sta lezioncina del contenimento costi e la vuole raccontare a me, che a livello di risparmio sto messo che il mio porcello salvadanaio va dallo psicanalista perché non trova una ragione per esistere. Questo qui si occupa della carta igienica e della pausa caffè e dice che vuole temporizzare i cessi e roba così. Il presente appartiene ai bidelli che per insegnare non c’è più nessuno buono. E intanto è il 7 luglio. Ci penso e mi ricordo i morti di Reggio Emilia. Senza retorica. Forse solo per non ascoltare quest’altro che fa scorrere diagrammi di ottimizzazione del nulla. A giugno a Genova, per i carrugi e in piazza De Ferrari scoppiò l’inferno. Mi ricordo quella stagione lì mentre l’altro perde la connessione e si incazza con un cavetto del tablet e non sa dei morti di Reggio Emilia anche se sul suo profilo in rete si è scritto che è appassionato di storia e nello specifico della seconda guerra punica. Che cazzo vuol dire essere appassionato di seconda querra punica. Come se dicessi che sono appassionato del congresso di Vienna. Ma è tutto così, dentro ‘sti vagoni, in barba al paese immobile e asfittico che scorre fuori dal finestrino, ci sono questi qui che giocano a questa pirandelliana farsa per maschere e si compiacciono delle reciproche esistenze, che solo tra loro possono giustificare. In giugno a Genova, altre estati misurerà sul passo tragico quella città ma ora penso al 1960, la gente scende in piazza. Muoiono persone in quei giorni in giro per l'Italia, l’apparato repressivo del ventennio è in piena efficienza e non c’è stata nemmeno l’intenzione di cambiarlo a guerra finita. I fascisti hanno scelto, al culmine di quella tensione che rimbalza dalle terre occupate alle piazze operaie e lascia morti in terra, di fare il loro congresso a Genova. Quella città lì è medaglia d’oro per la resistenza, per farci un’idea e mica per vanto che non vuol dire nulla che anche mio nonno era medaglia d’oro e guarda tu se gli è servito a scampare un’esistenza e una morte in mare cercando di riportare ogni giorno un piatto caldo ai figli. Però quella del 1960, altro che larghe intese e pupazzielli fiorentini, suonava come una vera sfida e era acido sulla faccia di quella gente che ancora sentiva l’odore della guerra sui muri delle case e nelle dispense. Insomma scendono in strada e tirano in piedi un casino che togliti. Quando a metà degli anni Novanta stavo curando il mio libro sul Boom economico sono andato a Genova e i camalli mi hanno dato le immagini e questa storia l’ho raccontata con attenzione in quelle pagine e mi ricordo che c’era questa foto di un camallo, famoso per la forza fisica, che sollevava da solo in piena piazza la camionetta carica di celerini e la ribaltava. Me la ricordo anche se in realtà proprio quella scena non l’ho vista in fotografia ma mi è stata raccontata in lunghe sere genovesi davanti a un bicchiere e alla fine potevo giurare, in barba alla nozione scientifica che dovrei portarmi dentro di fonte e documento, che quella foto esisteva e basta. Addirittura sapevo il nome del camallo, o meglio sapevo come lo chiamavano all’epoca e senza averlo conosciuto lo sentivo come una figura familiare. Scherzi della condivisione della memoria. E intanto il treno entrava in stazione e dai fatti di Genova ai giorni che arriveranno e ai morti lasciati sul selciato di Reggio Emilia il passo è breve e volevo ancora ricordare ma già il mio collega s’affrettava a rimettere a posto la sua strategia migliorativa del respiro del lavoratore tutta ficcata nel tablet e io facendo due conti mi sono detto che dai fatti di Genova sono passati abbondanti più di dieci anni per arrivare allo statuto dei lavoratori che sancisse orari, malattie, ferie, maternità e altri diritti spiccioli. C'era morta della gente su quelle firme lì ma mica vorrai stare a diventar matto. Il mio collega non ne conserva memoria di quei giorni e nemmeno dello statuto pare ma credo sappia molto della seconda guerra punica e il suo diploma in ragioneria lo mette, lo dice la parola stessa, già dalla parte della ragione ed è già buono da spendersi per spiegarmi il piano tariffario formidabile del suo smartofonino. Non è poco dico io, di questi tempi non è proprio poco. E alle mie spalle sento partire una freccia rossa ma non mi faccio più illusioni da un pezzo e vado verso il bar che ho bisogno di bere qualcosa, che ho la memoria secca.


Scontri in piazza De Ferrari, Genova, giugno 1960









mercoledì 5 marzo 2014

Social Photo







 Giorgio Olmoti, In ascensore, Torino, 2014



Ci sono persone che stanno attaccate al computer per ore alla ricerca di biglietti aerei a bassissimo costo e quando trovano un’ andata e ritorno per Oslo a sedici euro, arrivi la mattina riparti il pomeriggio, comprano e sentono di essere parte di una razza eletta dalla furbizia spiccata che gioverà all’evoluzione dell’umanità intera, migliorandola geneticamente. Poi li ritrovi in bilico nei dehors, ficcati nel cuore pulsante dell’apericena, che raccontano di com’è buono il Camogli o il Fattoria, che però da loro a Oslo, si sentono un po’ parte di quel popolo lì adesso, si chiamano come un comodino dell’Ikea. In realtà non sono atterrati proprio all’aeroporto della capitale norvegese, non giurarci che sappiano dove si trovi sul mappamondo quel posto, ma a quattro ore di motoslitta dalla città e restano in giro per lo scalo provando un brivido a fior di pelle mentre pisciano con le narici saturate dall’afrore di quei cessi lì del grande Nord. Gli tornerà buono per quando racconteranno, in un equilibrio prodigioso tra le parole rubate ai pieghevoli di Viaggidelventaglio e il dondolio ipnotico dei cubetti di ghiaccio nel mojito, che i bagni da loro a Oslo sono così puliti che ti viene voglia di viverci e di mangiarci il salmone e se pensi che il salmone che mangiate voi sia quello vero allora non hai vissuto davvero. I biglietti li comprano mesi prima della partenza o approfittano del colpo apoplettico che ha colto un’anziana ottuagenaria di Oslo, che era andata a trovare la sorella che vive a Garbagnate perché ha sposato un pizzaiolo di origini calabresi durante una vacanza studio negli anni Sessanta. Si vanno a sedere al posto della poverina che non è più partita e fossi la scientifica sospetterei l’avvelenamento. Ce ne sono alcuni di questi qui che girano per l’aeroporto guardando gli anziani, pronti ad approfittare del mancamento e dell’embolo da cappuccino bollente per afferrare i documenti di imbarco e chiedere di poter scendere in pista in sostituzione del titolare infortunato. 

Per quello che mi riguarda un viaggio ha senso se quando riparti qualcuno si ricorderà di te, lascerai qualcosa portandoti via la tua legittima borsata di ricordi e emozioni. Ma ai viaggiatori lampo gliene importa poco di lasciare un segno minimo, di scambiare, di conoscere e raccontare. Questa pratica del viaggio mordi e fuggi è un esercizio estenuante di costruzione di memorie domestiche pesate sulla capienza di schede e sulla nozione del giga, unità di misura con cui abbiamo la stessa disinvoltura che un tempo riservavamo all’etto di prosciutto e al litro di latte. Telefonini, tablet, computer, fotocamere indistruttibili che sono state progettate per resistere al fallout nucleare e che vengono fissate con opportune armature alla tracolla del bagaglio a mano, tutto concorre alla realizzazione del grande racconto per immagini. Il viaggio è sempre stato uno dei momenti fondanti dell’archivio domestico. La fotografia e la cartolina non sono l’opportunità che dai a chi resta a casa di conoscere e scoprire ma sono piuttosto strumento di rivalsa e un esercizio mostruoso di potere. Lo sanno bene quelli che al ritorno ti costringono a fissare per ore gallerie di immagini che sono solo fisicamente più lievi dei tragici albi di fotografie che ti venivano piazzati sulle gambe al ritorno dai viaggi di nozze e che, pesanti come putrelle, ti inchiodavano al tuo destino e al divano dei gentili ospiti. Gli albi fotografici sono stati agenti di storia e a loro si deve la vittoria al referendum dei favorevoli al divorzio nel 1974, nessuno me lo toglie dalla testa. Nell’era dei social network e della condivisione a oltranza, il lasso temporale, che correva tra la realizzazione di un’immagine da archivio domestico e il passaggio alla memoria condivisa e a ambiti di più ampio accesso, si è ridotto a zero. Un tempo si richiedeva alle nostre pose di essere plausibili per lo zio lontano e per i colleghi di papà e questo giustificava agghiaccianti scatti da piccino tutto nudo sulla coperta trapuntata del lettone dei genitori, con il flash che dona un’atmosfera irreale alla location, dando l’impressione che vivevamo tutti nei Sassi di Matera e regalando alle tue pupille bambine un bagliore rosso diabolico. Anche io, che già da piccolo ero brutto come un cane bagnato, mi sono ritrovato a celebrare il rito della memoria domestica e ho un’agghiacciante galleria di immagini vestito in guisa di zorro o ussaro, che poi era zorro con il colbacco di mia cugina, e ancora nudo sulla coperta mentre gioco con un ammasso di acari agghiacciante che si diceva fosse il mio pupazzetto preferito. Falle ora ‘ste foto di bimbo nudo, perché eravamo nudi un bravo antropologo ve lo potrebbe pure spiegare e a dire il vero anche io ma non è questo il punto, e ti piomba in casa la SWAT. La serie di immagini continua e cresce in parallelo alla vita di ognuno secondo le sue possibilità o secondo le possibilità dello zio, ce n’è uno per ogni famiglia, fissato con le fotografie, offrendo il suo contributo narrativo ai riti di passaggio del nostro tempo. La foto della nascita, il primo giorno di scuola con quel bell’entusiasmo che ci può avere uno che percorre il miglio verde sapendo che non sempre si parte per vedersi ritornare, la foto di classe, le vacanze, il matrimonio, la morte tutta concentrata in  quel formidabile compendio d’esistenza che affidiamo alla fotoceramica, punto narrativo centrale della nostra lapide. Poi a distanza di tempo tutte quelle immagini diventano il racconto corale dell’epoca e si scopre che le modalità di rappresentazioni erano rigidamente chiuse in schemi fissi e ripetuti. Come succede oggi sui social network. Con la differenza che adesso domestico e pubblico consumano la loro portata semantica in sincrono. La foto del nonno partigiano o repubblichino è motore emotivo importante e ci ricorda quanto era simpatico o quanto era stronzo il parente ma allo stesso tempo racconta oltre i confini del tinello di casa i giorni della guerra, i meccanismi inclusivi e esclusivi, le modalità di rappresentazione e il grado di consapevolezza, in chi si faceva ritrarre, di attivare racconto e documento. Al presente le foto caricate sui social network offrono la possibilità ad ampie fasce di utenza di costruire una propria immagine mediatica, qualcosa che più che rispondere al reale, ricordiamolo che tutte le foto, tutti i racconti mai sono portatori sani di verità e vanno sempre interrogati, risponda all’immagine ideale che vorremo offrire di noi. Il balletto in punta di plausibilità si gioca tutto sul filo di ostentate e fragilissime autoironie e soprattutto su modalità narrative che, come per gli archivi domestici, hanno dei rigidi modelli di riferimento. Abbiamo così le spregiudicate foto della spiaggia con i piedi e le cosce di chi scatta in primo piano, foto di bella seduzione in cui il protagonista, al pari di Senofonte quando descrive se stesso parlando in terza persona nell’Anabasi, ne esce sempre un po’ eroe un po’ sognatore. A guardarlo con bella distanza fa solo la figura del coglione ma la bella distanza è già un accessorio costoso in questa stagione dell’ hic et nunc, che trova massima espressione nelle selfie, quella pratica dell'autorappresentazione che ci spinge a autofotografarci tenendo il cellulare alla distanza massima consentita dal nostro medesimo braccio o agevolati dalla complicità di uno specchio e dalla magia di un fondale composto dalle coinvolgenti mattonelle di un cesso. E la proposta narrativa scolpita nei pixel ci regala belle suggestioni quando il racconto si sposta sui luoghi della propria quotidianità che vengono fortemente personalizzati dalla presenza di incredibili protagonisti esotici come i gatti, è loro il primato assoluto, cani e fidanzati/e. Ci sono poi le prove di ardimento, qui la tecnica fotografica la gioca da indiscussa padrona fermando i nostri eroi mentre stanno per sedersi nei fondali bassissimi e cristallini di un qualche mare da villaggio vacanze, ancora seduzione tagliata a fetta spessa, o ingaggiano duelli a palle di neve o, peggio di tutti, sfidano il tramonto lasciandoselo alle spalle e guardando in macchina con l’aria d’aver capito il senso ultimo dell’esistere. Una danza, una cosa tribale con bella esposizione di carni tremule e invoglianti, con occhi che rapiscono e piedi che ammiccano da spiagge assolate di torbidi tropici. Un antropologo ci sguazzerebbe e c’è pure il rito del banchetto, con la gente che s’ammazza a fotografare le pietanze che ordina al ristorante attivando con il social network un gesto che sublima la condivisione rituale del cibo. E allora torniamo ai viaggi, all’andare, alla conoscenza che è cardine ultimo del nostro respiro, la ragione prima di tutto il narrare. Mi piace notare che il viaggio ha ancora salde radici nella rappresentazione tradizionale di ambito domestico che era in voga ai tempi delle pellicole e degli album. Sei davanti al Colosseo e hai due possibilità narrative con la tua macchinetta fotografica. Puoi fotografarti in maniera che ti si distingua, che si possa notare l’abbietta tua propensione alla pratica turistica più becera, ben sottolineata da marsupi, borselli segreti per i soldi cuciti direttamente alla pelle dell’inguine, bermudoni e sandali con la suola anticalamità, cappelli di paglia che nella vita normale non avevi mai preso in considerazione, piantine della città infilate nel porta piantine in cordura fissato con il velcro al portaportapiantine fissato con il velcro al dorso della mano sinistra, borracce come fossi nel Sahara e invece sei in un posto pieno di fontanelle, bar e pozzanghere, e ovviamente tutto il tuo armamentario digitale. Ti porti a pochi metri dal Colosseo, gli dai le spalle e sorridi a quell’altro disgraziato che sceglierà se farti vedere bene bene, sperando che chi guarderà poi si fidi che quelle tre pietre in ombra alle tue spalle sono il Colosseo, o andandoci giù pesante di grandangolo, comprendendo parte significativa del monumento romano nell’inquadratura ma sperando a quel punto che chi guarda saprà credere che quella macchiolina atrocemente variopinta che si vede sotto l’arcata sei tu. In ogni caso la narrazione risulterà monca dei suoi contenuti significativi e dovrà giocarsela sulla fiducia dei condivisori. Succedeva anche un tempo con le foto tradizionali. Sta lì la cifra che distingue il fotografo narratore da quello che accrocca appunti fotografici. Ma vanno bene questo e quello. Resta il fatto però, che come si diceva in apertura, il viaggio prende bella consistenza quando riparti lasciando memoria di te e per quanto ci si sforzi resta difficile immaginare che i figuranti che hai pagato perché si facessero fotografare davanti al Colosseo con te, vestiti da centurioni, si ricordino della faccia tua oltre lo spazio temporale che passa dal loro sorriso ai tuoi soldi ma è la dura legge dell’illusione d’essere andati davvero da qualche parte. A quel punto resta la consolazione dei “mi piace” che raccoglierete sotto le vostre foto e che sono merce di scambio per quelli che dovrete mettere sotto le foto dei vostri amici, che forse il vero nodo del problema sta tutto in questa nozione nuova dell’amico. Ognuno chiede all’altro non per informarsi davvero ma per dichiarare piuttosto quello che già conosce e i nostri gesti sono i salti dei Watussi e valgono certo per la nozione d’umanità che ci portiamo d’obbligo addosso.