mercoledì 5 marzo 2014

Social Photo







 Giorgio Olmoti, In ascensore, Torino, 2014



Ci sono persone che stanno attaccate al computer per ore alla ricerca di biglietti aerei a bassissimo costo e quando trovano un’ andata e ritorno per Oslo a sedici euro, arrivi la mattina riparti il pomeriggio, comprano e sentono di essere parte di una razza eletta dalla furbizia spiccata che gioverà all’evoluzione dell’umanità intera, migliorandola geneticamente. Poi li ritrovi in bilico nei dehors, ficcati nel cuore pulsante dell’apericena, che raccontano di com’è buono il Camogli o il Fattoria, che però da loro a Oslo, si sentono un po’ parte di quel popolo lì adesso, si chiamano come un comodino dell’Ikea. In realtà non sono atterrati proprio all’aeroporto della capitale norvegese, non giurarci che sappiano dove si trovi sul mappamondo quel posto, ma a quattro ore di motoslitta dalla città e restano in giro per lo scalo provando un brivido a fior di pelle mentre pisciano con le narici saturate dall’afrore di quei cessi lì del grande Nord. Gli tornerà buono per quando racconteranno, in un equilibrio prodigioso tra le parole rubate ai pieghevoli di Viaggidelventaglio e il dondolio ipnotico dei cubetti di ghiaccio nel mojito, che i bagni da loro a Oslo sono così puliti che ti viene voglia di viverci e di mangiarci il salmone e se pensi che il salmone che mangiate voi sia quello vero allora non hai vissuto davvero. I biglietti li comprano mesi prima della partenza o approfittano del colpo apoplettico che ha colto un’anziana ottuagenaria di Oslo, che era andata a trovare la sorella che vive a Garbagnate perché ha sposato un pizzaiolo di origini calabresi durante una vacanza studio negli anni Sessanta. Si vanno a sedere al posto della poverina che non è più partita e fossi la scientifica sospetterei l’avvelenamento. Ce ne sono alcuni di questi qui che girano per l’aeroporto guardando gli anziani, pronti ad approfittare del mancamento e dell’embolo da cappuccino bollente per afferrare i documenti di imbarco e chiedere di poter scendere in pista in sostituzione del titolare infortunato. 

Per quello che mi riguarda un viaggio ha senso se quando riparti qualcuno si ricorderà di te, lascerai qualcosa portandoti via la tua legittima borsata di ricordi e emozioni. Ma ai viaggiatori lampo gliene importa poco di lasciare un segno minimo, di scambiare, di conoscere e raccontare. Questa pratica del viaggio mordi e fuggi è un esercizio estenuante di costruzione di memorie domestiche pesate sulla capienza di schede e sulla nozione del giga, unità di misura con cui abbiamo la stessa disinvoltura che un tempo riservavamo all’etto di prosciutto e al litro di latte. Telefonini, tablet, computer, fotocamere indistruttibili che sono state progettate per resistere al fallout nucleare e che vengono fissate con opportune armature alla tracolla del bagaglio a mano, tutto concorre alla realizzazione del grande racconto per immagini. Il viaggio è sempre stato uno dei momenti fondanti dell’archivio domestico. La fotografia e la cartolina non sono l’opportunità che dai a chi resta a casa di conoscere e scoprire ma sono piuttosto strumento di rivalsa e un esercizio mostruoso di potere. Lo sanno bene quelli che al ritorno ti costringono a fissare per ore gallerie di immagini che sono solo fisicamente più lievi dei tragici albi di fotografie che ti venivano piazzati sulle gambe al ritorno dai viaggi di nozze e che, pesanti come putrelle, ti inchiodavano al tuo destino e al divano dei gentili ospiti. Gli albi fotografici sono stati agenti di storia e a loro si deve la vittoria al referendum dei favorevoli al divorzio nel 1974, nessuno me lo toglie dalla testa. Nell’era dei social network e della condivisione a oltranza, il lasso temporale, che correva tra la realizzazione di un’immagine da archivio domestico e il passaggio alla memoria condivisa e a ambiti di più ampio accesso, si è ridotto a zero. Un tempo si richiedeva alle nostre pose di essere plausibili per lo zio lontano e per i colleghi di papà e questo giustificava agghiaccianti scatti da piccino tutto nudo sulla coperta trapuntata del lettone dei genitori, con il flash che dona un’atmosfera irreale alla location, dando l’impressione che vivevamo tutti nei Sassi di Matera e regalando alle tue pupille bambine un bagliore rosso diabolico. Anche io, che già da piccolo ero brutto come un cane bagnato, mi sono ritrovato a celebrare il rito della memoria domestica e ho un’agghiacciante galleria di immagini vestito in guisa di zorro o ussaro, che poi era zorro con il colbacco di mia cugina, e ancora nudo sulla coperta mentre gioco con un ammasso di acari agghiacciante che si diceva fosse il mio pupazzetto preferito. Falle ora ‘ste foto di bimbo nudo, perché eravamo nudi un bravo antropologo ve lo potrebbe pure spiegare e a dire il vero anche io ma non è questo il punto, e ti piomba in casa la SWAT. La serie di immagini continua e cresce in parallelo alla vita di ognuno secondo le sue possibilità o secondo le possibilità dello zio, ce n’è uno per ogni famiglia, fissato con le fotografie, offrendo il suo contributo narrativo ai riti di passaggio del nostro tempo. La foto della nascita, il primo giorno di scuola con quel bell’entusiasmo che ci può avere uno che percorre il miglio verde sapendo che non sempre si parte per vedersi ritornare, la foto di classe, le vacanze, il matrimonio, la morte tutta concentrata in  quel formidabile compendio d’esistenza che affidiamo alla fotoceramica, punto narrativo centrale della nostra lapide. Poi a distanza di tempo tutte quelle immagini diventano il racconto corale dell’epoca e si scopre che le modalità di rappresentazioni erano rigidamente chiuse in schemi fissi e ripetuti. Come succede oggi sui social network. Con la differenza che adesso domestico e pubblico consumano la loro portata semantica in sincrono. La foto del nonno partigiano o repubblichino è motore emotivo importante e ci ricorda quanto era simpatico o quanto era stronzo il parente ma allo stesso tempo racconta oltre i confini del tinello di casa i giorni della guerra, i meccanismi inclusivi e esclusivi, le modalità di rappresentazione e il grado di consapevolezza, in chi si faceva ritrarre, di attivare racconto e documento. Al presente le foto caricate sui social network offrono la possibilità ad ampie fasce di utenza di costruire una propria immagine mediatica, qualcosa che più che rispondere al reale, ricordiamolo che tutte le foto, tutti i racconti mai sono portatori sani di verità e vanno sempre interrogati, risponda all’immagine ideale che vorremo offrire di noi. Il balletto in punta di plausibilità si gioca tutto sul filo di ostentate e fragilissime autoironie e soprattutto su modalità narrative che, come per gli archivi domestici, hanno dei rigidi modelli di riferimento. Abbiamo così le spregiudicate foto della spiaggia con i piedi e le cosce di chi scatta in primo piano, foto di bella seduzione in cui il protagonista, al pari di Senofonte quando descrive se stesso parlando in terza persona nell’Anabasi, ne esce sempre un po’ eroe un po’ sognatore. A guardarlo con bella distanza fa solo la figura del coglione ma la bella distanza è già un accessorio costoso in questa stagione dell’ hic et nunc, che trova massima espressione nelle selfie, quella pratica dell'autorappresentazione che ci spinge a autofotografarci tenendo il cellulare alla distanza massima consentita dal nostro medesimo braccio o agevolati dalla complicità di uno specchio e dalla magia di un fondale composto dalle coinvolgenti mattonelle di un cesso. E la proposta narrativa scolpita nei pixel ci regala belle suggestioni quando il racconto si sposta sui luoghi della propria quotidianità che vengono fortemente personalizzati dalla presenza di incredibili protagonisti esotici come i gatti, è loro il primato assoluto, cani e fidanzati/e. Ci sono poi le prove di ardimento, qui la tecnica fotografica la gioca da indiscussa padrona fermando i nostri eroi mentre stanno per sedersi nei fondali bassissimi e cristallini di un qualche mare da villaggio vacanze, ancora seduzione tagliata a fetta spessa, o ingaggiano duelli a palle di neve o, peggio di tutti, sfidano il tramonto lasciandoselo alle spalle e guardando in macchina con l’aria d’aver capito il senso ultimo dell’esistere. Una danza, una cosa tribale con bella esposizione di carni tremule e invoglianti, con occhi che rapiscono e piedi che ammiccano da spiagge assolate di torbidi tropici. Un antropologo ci sguazzerebbe e c’è pure il rito del banchetto, con la gente che s’ammazza a fotografare le pietanze che ordina al ristorante attivando con il social network un gesto che sublima la condivisione rituale del cibo. E allora torniamo ai viaggi, all’andare, alla conoscenza che è cardine ultimo del nostro respiro, la ragione prima di tutto il narrare. Mi piace notare che il viaggio ha ancora salde radici nella rappresentazione tradizionale di ambito domestico che era in voga ai tempi delle pellicole e degli album. Sei davanti al Colosseo e hai due possibilità narrative con la tua macchinetta fotografica. Puoi fotografarti in maniera che ti si distingua, che si possa notare l’abbietta tua propensione alla pratica turistica più becera, ben sottolineata da marsupi, borselli segreti per i soldi cuciti direttamente alla pelle dell’inguine, bermudoni e sandali con la suola anticalamità, cappelli di paglia che nella vita normale non avevi mai preso in considerazione, piantine della città infilate nel porta piantine in cordura fissato con il velcro al portaportapiantine fissato con il velcro al dorso della mano sinistra, borracce come fossi nel Sahara e invece sei in un posto pieno di fontanelle, bar e pozzanghere, e ovviamente tutto il tuo armamentario digitale. Ti porti a pochi metri dal Colosseo, gli dai le spalle e sorridi a quell’altro disgraziato che sceglierà se farti vedere bene bene, sperando che chi guarderà poi si fidi che quelle tre pietre in ombra alle tue spalle sono il Colosseo, o andandoci giù pesante di grandangolo, comprendendo parte significativa del monumento romano nell’inquadratura ma sperando a quel punto che chi guarda saprà credere che quella macchiolina atrocemente variopinta che si vede sotto l’arcata sei tu. In ogni caso la narrazione risulterà monca dei suoi contenuti significativi e dovrà giocarsela sulla fiducia dei condivisori. Succedeva anche un tempo con le foto tradizionali. Sta lì la cifra che distingue il fotografo narratore da quello che accrocca appunti fotografici. Ma vanno bene questo e quello. Resta il fatto però, che come si diceva in apertura, il viaggio prende bella consistenza quando riparti lasciando memoria di te e per quanto ci si sforzi resta difficile immaginare che i figuranti che hai pagato perché si facessero fotografare davanti al Colosseo con te, vestiti da centurioni, si ricordino della faccia tua oltre lo spazio temporale che passa dal loro sorriso ai tuoi soldi ma è la dura legge dell’illusione d’essere andati davvero da qualche parte. A quel punto resta la consolazione dei “mi piace” che raccoglierete sotto le vostre foto e che sono merce di scambio per quelli che dovrete mettere sotto le foto dei vostri amici, che forse il vero nodo del problema sta tutto in questa nozione nuova dell’amico. Ognuno chiede all’altro non per informarsi davvero ma per dichiarare piuttosto quello che già conosce e i nostri gesti sono i salti dei Watussi e valgono certo per la nozione d’umanità che ci portiamo d’obbligo addosso.