Giorgio Olmoti, tempo di uccidere, Torino 2014 |
“Ci fu un tempo in cui
gli uomini, per fare le fotografie, dovevano procurarsi la pellicola e erano
già più fortunati dei loro antenati che avevano a disposizione solo delle
lastre di ferro, di vetro, di marmo per l’ultimo scatto. Ci fu ancora un tempo,
ragazzo mio, in cui le pellicole erano tante e ognuna serviva a qualcosa di
speciale ma poteva essere impiegata un po’ per tutto. Al massimo nella tua
macchina fotografica, una volta caricata, c’erano trentasei possibilità ma
qualche produttore di pellicola abbondava e se eri fortunato ne potevi fare
anche trentotto a spanne. La pellicola era una sorta di nastro magico che aveva
le sue ossessioni e un comportamento compulsivo tipico di quelli che fanno cose
incredibili ma non sanno trovare misura nella quotidianità. Andava maneggiata
al buio, era l’unica vera possibilità dell’umano di confrontarsi con
l’esperienza tattile per bella necessità e non per diletto, sempre escludendo
la pratica erotica in cui quello che tocchi può trasformarsi in quello che
senti e fai sentire. Dovevi starci attento alla pellicola, era cosa viva e
soffriva il caldo e odiava la curiosità poliziesca, uguali sempre io e la
pellicola, all’aeroporto con i raggi fruganti nel bagaglio che rischiavano di
innervosirla e alterarla. Ci fu un tempo, credimi giovane amico, che quando
avevi scattato, potessi fartelo sentire quel singhiozzo tra le dita
dell’otturatore che mordeva la luce, non s’era concluso il rapporto con
l’immagine, con il racconto. Bada bene, il tuo racconto, proprio il tuo, solo
tuo. Dovevi riavvolgere la pellicola e sviluppare e stampare e ogni volta
intervenire proponendo soluzioni che erano la magica interazione tra caso e
necessità. Per quanto scientifico e misurato fosse il tuo processo la
variazione era una costante ineliminabile e i risultati sempre frutto di un
equilibrio che aveva ragioni inafferrabili. Forse la ragione di tutto questo
sta nella disposizione e non parlo dell’animo ma piuttosto della grana della
pellicola, di quei corpicini reattivi che vivevano nella gelatina della
pellicola e che ne sapevano di fisica e di chimica e di emozione. Erano
disposti casualmente quei granuli, alogenuri d’argento che erano preziosi oltre
la nozione che gli indici di borsa possono raccontarti di quel metallo perché
erano contenitori efficienti di memoria, erano le parole per scrivere in un
altro modo. Ora i pixel fanno il loro lavoro con buona lena e bella possibilità
ma stanno ordinati matematicamente e non conoscono la magia del trovarsi per
caso. C’era un tempo che per fare le fotografie dovevi spendere dei soldi che
ripartiti per ogni singolo scatto erano un senso della tua scelta estetica.
Attivavi motori critici perché mica potevi scattare a raffica tutto quello che
vedevi. Un processo di sintesi che negava mille possibilità che il presente,
percorso dalla piena della fotorrea che gonfia le reti, soprattutto quelle a
alto tasso di socialità, e le memorie sempre più capienti dei nostri archivi
domestici. Riducendo per assurdo la possibilità del racconto, la sua
meravigliosa personalizzazione. Vabbè c’era quel tempo e fare le foto m’ha dato
da vivere e m’ ha dato da raccontare con gli occhi, e quando quel modo di trovare
m’è morto tra le braccia come il migliore dei miei cani io non sono più
riuscito a raccontare serenamente con le immagini. Certo ne scatto ancora di
fotografie, come tutti, e devo dire che aver saputo domare certi carrarmati di
acciaio e lenti mi serve ora a ottenere risultati che per l’utente medio sono
generatori di continue meraviglie. Mi sono affezionato alle mie reflex
digitali, ho una macchina fotografica che resiste agli urti della mia vita e
questo è un vero prodigio della tecnologia. Non ho mai odiato il progresso e le
tecnologie che propone, anzi, ma c’era un altro tempo e sentivo di dovertelo
raccontare, senza saperne nemmeno con chiarezza il motivo, forse solo perché
quel tempo è la misura delle mie passioni di allora e di quelle di oggi e forse
solo perché se tu sei mio figlio, nessuno meglio di te può dirsi misura delle
mie passioni.”
Daniele si sta appassionando alla pratica del racconto
fotografico e gli ho dato una delle mie reflex. Se l’è portata nella sua stanza
e ha cominciato ad annusarla e a guardarci dentro e poi di nuovo annusarla. Come
conosco quel corteggiamento, come riesco a leggere l’emozione dello scoprire e
del conoscere. Continuo però, nel rispetto della mia personalissima pratica
della Danipedia, a far finta di niente. Me lo sono visto tornare a cercarmi per
chiedere e voleva capire sul serio. A
quel punto ho pensato che, per spiegarmi meglio, dovevo andare alle radici di
quella storia e ho aperto il baule in cui conservo le macchine fotografiche e
gli obiettivi e gli accessori che mi hanno dato da vivere per una parte
consistente della mia vita. A dire il vero un mucchio di materiale, quando
avevo bisogno di soldi, me lo sono venduto per un pugno di euro, ma quello che
m’è rimasto lo terrò per sempre e non permetterò più a nessuno di comprarsi, a
qualsiasi prezzo, altri pezzi della mia vita. Ho lasciato perdere le macchine
medio formato e mi sono concentrato sulla venere cicladica di tutte le macchine
fotografiche, sulla concupita dea della fotofertilità. Ho aperto una
vecchissima borsa di pelle e ne ho cavato fuori una Niikon FM2, avrei potuto
scegliere la progenitrice FM ma ho voluto concedere una possibilità al mio
vezzo e quella è la macchina con cui ho raccontato meglio, non certo quella con
cui ho lavorato di più ma piuttosto quella che si portava dentro i miei scatti
più cercati, sempre facendo a morso e bacio con la luce e il buio. Volevo
mostrarla a mio figlio, come a stendere la mano e a fargli vedere le linee mie
che corrono verso una morte che c’è già stata mille volte.
La Nikon FM2 è un prodigio meccanico, scatta fino a un
quattromillesimo di secondo e non ha nessun ausilio elettronico. Dentro è
riempita di ghiere, molle e ingranaggi e scatta sempre, non c’è nulla che la
possa fermare. Un sistema a orologeria che ti ronza tra le dita nelle pose
lunghe e che mi dava la sensazione di poter scattare da lì all’eternità. Poi è
andata com’ è andata ma questa è un’altra storia, che l’eternità è sempre la
solita puttana e già sappiamo che non c’è da farci troppo conto. Ancora, il
metallo sotto le dita e quelle ghiere da metterci la forza delle dita e l’odore
delle foto. E io a spiegare la vita di coppia che conducono con studiata
abitudine il tempo e il diaframma e la luce e lo specchio e il fiato tenuto
fermo sull’attimo che è solo tuo e di Fresnel, che qua si parla di mettere a
fuoco usando ancora l’acciarino mentre tutto attorno brucia di codici binari. E
poi l’esposizione. Dentro il mirino di quella macchina c’è una potente lezione
di sintesi per quelle di oggi oberate da dati e display interni e esterni. Nel
mio ferro sempre lucente non ci sono molti dati ma un ausilio elettronico lo
dobbiamo confessare. Una batteria regala vita a una sorta di semaforino a tre
segni. C’è un più per il sovraesposto, un meno per il sottoesposto e uno zero,
per la giusta esposizione. Avevo anche
smesso di guardarli col tempo quei segni, che l’esposimetro era una cosa che ti portavi un
po’ negli occhi a forza di misurare la luce e ancora oggi mi diverto a
indovinare il sessantesimo sulle luci medie, rimanendo seduto al tavolino del
bar e senza scattare mai. Quella macchina mi ha insegnato a salire la scala dei
grigi e a dare un tono alle cose. E ne parlavamo seduti per terra io e Dani e
eravamo compresi in quella complice condivisione e gliel’ho detto “ora dentro
l’esposimetro non funziona perché quando quindici anni fa almeno, l’ho riposta,
ho tolto le pile". Lui però guarda dentro e grida “Funziona ancora” e io penso
che la suggestione a quattordici anni è cosa potente. Ma lui insiste e mi dice
di guardare e quel cazzo di esposimetro pare riconoscermi alla pupilla e
s’accende sul serio. Dopo tutto quel tempo. E io, che per una vita mi sono detto
che quella macchina era immortale ma certo l’esposimetro e la sua pila
sarebbero scaduti come il latte fuori dal frigo, ora faccio i conti con qualcosa
che non avevo immaginato. Era rimasta lì ad aspettarmi. Dentro una borsa di
pelle, affogata da una scorta mostruosa di rulli Tmax 6x6 che non userò mai
più. Ora è qui sulla scrivania. Alla luce che è la mia luce. Com’è giusto che
sia. Dentro le penne mie ci sono tutte le parole, dentro quella macchina
fotografica tutto quello che ho visto e vedrò, per gli altri può non essere
nulla ma per me e per Dani è una bella certezza e ora tocca a lui trovarsi una
compagna di racconti.