domenica 30 novembre 2014

TEMPO DI UCCIDERE, TEMPO DI MORIRE







Giorgio Olmoti, tempo di uccidere, Torino 2014




“Ci fu un tempo in cui gli uomini, per fare le fotografie, dovevano procurarsi la pellicola e erano già più fortunati dei loro antenati che avevano a disposizione solo delle lastre di ferro, di vetro, di marmo per l’ultimo scatto. Ci fu ancora un tempo, ragazzo mio, in cui le pellicole erano tante e ognuna serviva a qualcosa di speciale ma poteva essere impiegata un po’ per tutto. Al massimo nella tua macchina fotografica, una volta caricata, c’erano trentasei possibilità ma qualche produttore di pellicola abbondava e se eri fortunato ne potevi fare anche trentotto a spanne. La pellicola era una sorta di nastro magico che aveva le sue ossessioni e un comportamento compulsivo tipico di quelli che fanno cose incredibili ma non sanno trovare misura nella quotidianità. Andava maneggiata al buio, era l’unica vera possibilità dell’umano di confrontarsi con l’esperienza tattile per bella necessità e non per diletto, sempre escludendo la pratica erotica in cui quello che tocchi può trasformarsi in quello che senti e fai sentire. Dovevi starci attento alla pellicola, era cosa viva e soffriva il caldo e odiava la curiosità poliziesca, uguali sempre io e la pellicola, all’aeroporto con i raggi fruganti nel bagaglio che rischiavano di innervosirla e alterarla. Ci fu un tempo, credimi giovane amico, che quando avevi scattato, potessi fartelo sentire quel singhiozzo tra le dita dell’otturatore che mordeva la luce, non s’era concluso il rapporto con l’immagine, con il racconto. Bada bene, il tuo racconto, proprio il tuo, solo tuo. Dovevi riavvolgere la pellicola e sviluppare e stampare e ogni volta intervenire proponendo soluzioni che erano la magica interazione tra caso e necessità. Per quanto scientifico e misurato fosse il tuo processo la variazione era una costante ineliminabile e i risultati sempre frutto di un equilibrio che aveva ragioni inafferrabili. Forse la ragione di tutto questo sta nella disposizione e non parlo dell’animo ma piuttosto della grana della pellicola, di quei corpicini reattivi che vivevano nella gelatina della pellicola e che ne sapevano di fisica e di chimica e di emozione. Erano disposti casualmente quei granuli, alogenuri d’argento che erano preziosi oltre la nozione che gli indici di borsa possono raccontarti di quel metallo perché erano contenitori efficienti di memoria, erano le parole per scrivere in un altro modo. Ora i pixel fanno il loro lavoro con buona lena e bella possibilità ma stanno ordinati matematicamente e non conoscono la magia del trovarsi per caso. C’era un tempo che per fare le fotografie dovevi spendere dei soldi che ripartiti per ogni singolo scatto erano un senso della tua scelta estetica. Attivavi motori critici perché mica potevi scattare a raffica tutto quello che vedevi. Un processo di sintesi che negava mille possibilità che il presente, percorso dalla piena della fotorrea che gonfia le reti, soprattutto quelle a alto tasso di socialità, e le memorie sempre più capienti dei nostri archivi domestici. Riducendo per assurdo la possibilità del racconto, la sua meravigliosa personalizzazione. Vabbè c’era quel tempo e fare le foto m’ha dato da vivere e m’ ha dato da raccontare con gli occhi, e quando quel modo di trovare m’è morto tra le braccia come il migliore dei miei cani io non sono più riuscito a raccontare serenamente con le immagini. Certo ne scatto ancora di fotografie, come tutti, e devo dire che aver saputo domare certi carrarmati di acciaio e lenti mi serve ora a ottenere risultati che per l’utente medio sono generatori di continue meraviglie. Mi sono affezionato alle mie reflex digitali, ho una macchina fotografica che resiste agli urti della mia vita e questo è un vero prodigio della tecnologia. Non ho mai odiato il progresso e le tecnologie che propone, anzi, ma c’era un altro tempo e sentivo di dovertelo raccontare, senza saperne nemmeno con chiarezza il motivo, forse solo perché quel tempo è la misura delle mie passioni di allora e di quelle di oggi e forse solo perché se tu sei mio figlio, nessuno meglio di te può dirsi misura delle mie passioni.”


Daniele si sta appassionando alla pratica del racconto fotografico e gli ho dato una delle mie reflex. Se l’è portata nella sua stanza e ha cominciato ad annusarla e a guardarci dentro e poi di nuovo annusarla. Come conosco quel corteggiamento, come riesco a leggere l’emozione dello scoprire e del conoscere. Continuo però, nel rispetto della mia personalissima pratica della Danipedia, a far finta di niente. Me lo sono visto tornare a cercarmi per chiedere  e voleva capire sul serio. A quel punto ho pensato che, per spiegarmi meglio, dovevo andare alle radici di quella storia e ho aperto il baule in cui conservo le macchine fotografiche e gli obiettivi e gli accessori che mi hanno dato da vivere per una parte consistente della mia vita. A dire il vero un mucchio di materiale, quando avevo bisogno di soldi, me lo sono venduto per un pugno di euro, ma quello che m’è rimasto lo terrò per sempre e non permetterò più a nessuno di comprarsi, a qualsiasi prezzo, altri pezzi della mia vita. Ho lasciato perdere le macchine medio formato e mi sono concentrato sulla venere cicladica di tutte le macchine fotografiche, sulla concupita dea della fotofertilità. Ho aperto una vecchissima borsa di pelle e ne ho cavato fuori una Niikon FM2, avrei potuto scegliere la progenitrice FM ma ho voluto concedere una possibilità al mio vezzo e quella è la macchina con cui ho raccontato meglio, non certo quella con cui ho lavorato di più ma piuttosto quella che si portava dentro i miei scatti più cercati, sempre facendo a morso e bacio con la luce e il buio. Volevo mostrarla a mio figlio, come a stendere la mano e a fargli vedere le linee mie che corrono verso una morte che c’è già stata mille volte.
La Nikon FM2 è un prodigio meccanico, scatta fino a un quattromillesimo di secondo e non ha nessun ausilio elettronico. Dentro è riempita di ghiere, molle e ingranaggi e scatta sempre, non c’è nulla che la possa fermare. Un sistema a orologeria che ti ronza tra le dita nelle pose lunghe e che mi dava la sensazione di poter scattare da lì all’eternità. Poi è andata com’ è andata ma questa è un’altra storia, che l’eternità è sempre la solita puttana e già sappiamo che non c’è da farci troppo conto. Ancora, il metallo sotto le dita e quelle ghiere da metterci la forza delle dita e l’odore delle foto. E io a spiegare la vita di coppia che conducono con studiata abitudine il tempo e il diaframma e la luce e lo specchio e il fiato tenuto fermo sull’attimo che è solo tuo e di Fresnel, che qua si parla di mettere a fuoco usando ancora l’acciarino mentre tutto attorno brucia di codici binari. E poi l’esposizione. Dentro il mirino di quella macchina c’è una potente lezione di sintesi per quelle di oggi oberate da dati e display interni e esterni. Nel mio ferro sempre lucente non ci sono molti dati ma un ausilio elettronico lo dobbiamo confessare. Una batteria regala vita a una sorta di semaforino a tre segni. C’è un più per il sovraesposto, un meno per il sottoesposto e uno zero, per la giusta esposizione. Avevo anche smesso di guardarli col tempo quei segni, che l’esposimetro era una cosa che ti portavi un po’ negli occhi a forza di misurare la luce e ancora oggi mi diverto a indovinare il sessantesimo sulle luci medie, rimanendo seduto al tavolino del bar e senza scattare mai. Quella macchina mi ha insegnato a salire la scala dei grigi e a dare un tono alle cose. E ne parlavamo seduti per terra io e Dani e eravamo compresi in quella complice condivisione e gliel’ho detto “ora dentro l’esposimetro non funziona perché quando quindici anni fa almeno, l’ho riposta, ho tolto le pile". Lui però guarda dentro e grida “Funziona ancora” e io penso che la suggestione a quattordici anni è cosa potente. Ma lui insiste e mi dice di guardare e quel cazzo di esposimetro pare riconoscermi alla pupilla e s’accende sul serio. Dopo tutto quel tempo. E io, che per una vita mi sono detto che quella macchina era immortale ma certo l’esposimetro e la sua pila sarebbero scaduti come il latte fuori dal frigo, ora faccio i conti con qualcosa che non avevo immaginato. Era rimasta lì ad aspettarmi. Dentro una borsa di pelle, affogata da una scorta mostruosa di rulli Tmax 6x6 che non userò mai più. Ora è qui sulla scrivania. Alla luce che è la mia luce. Com’è giusto che sia. Dentro le penne mie ci sono tutte le parole, dentro quella macchina fotografica tutto quello che ho visto e vedrò, per gli altri può non essere nulla ma per me e per Dani è una bella certezza e ora tocca a lui trovarsi una compagna di racconti.