Quando lavoravo in casa editrice come photo editor un
paio di volte alla settimana, a spezzare la consuetudine con le agenzie e con
la digitalizzazione sistematica di tutte le narrazioni iconografiche possibili,
la scrivania mi si riempiva di foto stampate su carta politenata. Generalmente
erano foto in bianco e nero perché pare che regalino una potente suggestione
autoriale, soprattutto tra quelli che di fotografia non capiscono niente. E una
volta su due erano personaggi che m’avevano chiesto per mesi udienza, non che
fosse difficile raggiungermi ma questi me li dovevo gestire a dosi misurate per
non esserne consumato. Arrivavano e mi piazzavano davanti albi ingrassati da
stampe di pregio. Alcuni fotografavano ancora su pellicola. Ingrandimenti che
dovevano essere costati parecchio e che quelli del laboratorio avevano fatto
stampando su carta fotografica dal computer quei ricercatissimi negativi
preventivamente passati allo scanner. Tutto è file o tutto lo diventerà. E
questi poveracci s’erano dannati a scattare in ossessione di posa e impugnando
esposimetri spot che potevano raccontarti con intima precisione la millimetrica
natura della luce. Andavano a ritirare le stampe e pagavano convinti che nel
retro ci fosse un omino che stampava alla luce rossa della camera oscura,
passando la carta dallo sviluppo al fissaggio con consumata abitudine. E la grana dei loro negativi, sparsa con
casualità era stata intanto sostituita dai pixel geometricamente ordinati della
stampa digitale ma loro non sospettavano l’oltraggio alle loro gelatine
sensibili primigenie e si guardavano le stampe valutando con orgoglio la gamma
dei grigi. Al fotografo di quella pezzatura piaceva e piace pensare di saper
vedere cose che non esistono nel suo cervello. Parlava di incisione, di contrasto
e cose così perché l’avevo letto nei blog e nelle riviste. Una galassia umana tragica
e dalla creatività in avanzato stato di ottundimento. Gli stessi che scrivevano
e scrivono in rete l’opinione su qualsiasi oggetto e coltivavano passioni
tenaci ma la fotografia era la loro ossessione su tutto. Scattavano e poi
caricavano sui siti di condivisione, non luoghi dell’attenzione in cui ognuno
sta concentrato sulle sue cose e lo scambio eventuale tra utenti è funzionale
solo all’attivazione di reciproche attenzioni che sono monumenti alla
solitudine. Io guardo le tue foto se tu guardi le mie e ti farò i complimenti
ma dentro continuerò a pensare che tu ora starai guardando e capirai che io
sono molto più bravo di te. Lo pensano entrambi e allo stesso modo si fanno
grandi complimenti.
A un certo punto della loro ossessione autoriferita iniziavano
a chiamare me e a scrivermi e con il copia incolla prendevano contatto con
altri trecento miei omologhi della macchina editoriale sparsi per il mondo. E
un giorno varcavano la soglia di quel mio ufficio ingombro di vecchi giri di
bozze e copertine abortite e stamponi e tipometri. Entravano timidi e mi
mettevano le foto davanti, decisi a giocarsi la carta dell’umiltà. Ma io lo
sapevo che non sarebbe durata molto. Scorrevo le foto, che la curiosità
s’attiva sempre ma poi viene inevitabilmente sostituita da una pratica minima
della cortesia. Una volta su tre le foto erano la memoria di un viaggio in
India. Sospetto che per noi le pagine salgariane abbiano costruito nel tempo un
immaginario esotico condiviso che prescinde ormai dalla lettura e che piuttosto
è una sorta di tara genetica. Quelle foto dell’India, anno dopo anno, albo dopo
albo, erano sempre uguali. C’era un tizio con il turbante seduto a gambe
incrociate a bordo Gange. Guardava in macchina e fissava dritto me. Lui pareva
averlo capito che tutte quelle foto della sua faccia in bianco e nero per
enfatizzare i segni della pelle e gli occhi strizzati dal sole e la magrezza
che lo davano in odore di santità,, che in India tutto è santo di qualcosa
d’altro, negli anni sarebbero arrivate alla mia scrivania. Lui guardava proprio
me in quelle fotografiee c’era complicità. Entrambi campavamo grazie a quel
cerchio che iniziava quando lui accettava qualche rupia per farsi fotografare e
si chiudeva quando fingevo di guardare assorto quel racconto politenato in
bianco e nero. Non riuscivo a non guardarlo, a non fermarmi su quella faccia
che avevo imparato a conoscere. Quasi m’accertavo che da un fotografo
all’altro, da un albo all’altro, il mio complice se la passasse bene e potesse
tenere botta per altre mille foto ancora.
A realizzare quelle immagini non erano mai i
professionisti, quelli sono sciacalli furbi della comunicazione e non si sognerebbero
di presentarsi a un photoeditor con la foto del santone del Gange a meno che
quest’ultimo non fosse stato strangolato da un Thug. Maledetta incancellabile
memoria salgariana che torna come un rigurgito a ogni suggestione d’esotico.
Quelli che facevano quelle foto amavano definirsi “amatori evoluti”,
recuperando una surreale definizione di moda nelle riviste di fotografia per
costruire una sorta di limbo tra i dilettanti e i professionisti. In quella
terra di nessuno il mercato pescava a mani piene, perché vi si aggiravano vite
sospese tra la secca d’abitudine di esistenze scandite da ritmi da ufficio
ministeriale, impieghi sicuri e cattedre ottenute da un concorso all’altro
arrivando vecchi e senza fiato alla propria missione didattica. Avevano soldi da
spendere questi qui perché erano disposti a comprare i loro sogni come già
avevano da un pezzo imparato a far mercato delle proprie voglie e riempivano
borse capienti di attrezzature e obiettivi e camminavano d’estate con il
fardello delle truppe coloniali in marcia nel deserto dell’anima.