martedì 16 febbraio 2016

Appunti dal futuro













Quando lavoravo in casa editrice come photo editor un paio di volte alla settimana, a spezzare la consuetudine con le agenzie e con la digitalizzazione sistematica di tutte le narrazioni iconografiche possibili, la scrivania mi si riempiva di foto stampate su carta politenata. Generalmente erano foto in bianco e nero perché pare che regalino una potente suggestione autoriale, soprattutto tra quelli che di fotografia non capiscono niente. E una volta su due erano personaggi che m’avevano chiesto per mesi udienza, non che fosse difficile raggiungermi ma questi me li dovevo gestire a dosi misurate per non esserne consumato. Arrivavano e mi piazzavano davanti albi ingrassati da stampe di pregio. Alcuni fotografavano ancora su pellicola. Ingrandimenti che dovevano essere costati parecchio e che quelli del laboratorio avevano fatto stampando su carta fotografica dal computer quei ricercatissimi negativi preventivamente passati allo scanner. Tutto è file o tutto lo diventerà. E questi poveracci s’erano dannati a scattare in ossessione di posa e impugnando esposimetri spot che potevano raccontarti con intima precisione la millimetrica natura della luce. Andavano a ritirare le stampe e pagavano convinti che nel retro ci fosse un omino che stampava alla luce rossa della camera oscura, passando la carta dallo sviluppo al fissaggio con consumata abitudine.  E la grana dei loro negativi, sparsa con casualità era stata intanto sostituita dai pixel geometricamente ordinati della stampa digitale ma loro non sospettavano l’oltraggio alle loro gelatine sensibili primigenie e si guardavano le stampe valutando con orgoglio la gamma dei grigi. Al fotografo di quella pezzatura piaceva e piace pensare di saper vedere cose che non esistono nel suo cervello. Parlava di incisione, di contrasto e cose così perché l’avevo letto nei blog e nelle riviste. Una galassia umana tragica e dalla creatività in avanzato stato di ottundimento. Gli stessi che scrivevano e scrivono in rete l’opinione su qualsiasi oggetto e coltivavano passioni tenaci ma la fotografia era la loro ossessione su tutto. Scattavano e poi caricavano sui siti di condivisione, non luoghi dell’attenzione in cui ognuno sta concentrato sulle sue cose e lo scambio eventuale tra utenti è funzionale solo all’attivazione di reciproche attenzioni che sono monumenti alla solitudine. Io guardo le tue foto se tu guardi le mie e ti farò i complimenti ma dentro continuerò a pensare che tu ora starai guardando e capirai che io sono molto più bravo di te. Lo pensano entrambi e allo stesso modo si fanno grandi complimenti.

A un certo punto della loro ossessione autoriferita iniziavano a chiamare me e a scrivermi e con il copia incolla prendevano contatto con altri trecento miei omologhi della macchina editoriale sparsi per il mondo. E un giorno varcavano la soglia di quel mio ufficio ingombro di vecchi giri di bozze e copertine abortite e stamponi e tipometri. Entravano timidi e mi mettevano le foto davanti, decisi a giocarsi la carta dell’umiltà. Ma io lo sapevo che non sarebbe durata molto. Scorrevo le foto, che la curiosità s’attiva sempre ma poi viene inevitabilmente sostituita da una pratica minima della cortesia. Una volta su tre le foto erano la memoria di un viaggio in India. Sospetto che per noi le pagine salgariane abbiano costruito nel tempo un immaginario esotico condiviso che prescinde ormai dalla lettura e che piuttosto è una sorta di tara genetica. Quelle foto dell’India, anno dopo anno, albo dopo albo, erano sempre uguali. C’era un tizio con il turbante seduto a gambe incrociate a bordo Gange. Guardava in macchina e fissava dritto me. Lui pareva averlo capito che tutte quelle foto della sua faccia in bianco e nero per enfatizzare i segni della pelle e gli occhi strizzati dal sole e la magrezza che lo davano in odore di santità,, che in India tutto è santo di qualcosa d’altro, negli anni sarebbero arrivate alla mia scrivania. Lui guardava proprio me in quelle fotografiee c’era complicità. Entrambi campavamo grazie a quel cerchio che iniziava quando lui accettava qualche rupia per farsi fotografare e si chiudeva quando fingevo di guardare assorto quel racconto politenato in bianco e nero. Non riuscivo a non guardarlo, a non fermarmi su quella faccia che avevo imparato a conoscere. Quasi m’accertavo che da un fotografo all’altro, da un albo all’altro, il mio complice se la passasse bene e potesse tenere botta per altre mille foto ancora.
A realizzare quelle immagini non erano mai i professionisti, quelli sono sciacalli furbi della comunicazione e non si sognerebbero di presentarsi a un photoeditor con la foto del santone del Gange a meno che quest’ultimo non fosse stato strangolato da un Thug. Maledetta incancellabile memoria salgariana che torna come un rigurgito a ogni suggestione d’esotico. Quelli che facevano quelle foto amavano definirsi “amatori evoluti”, recuperando una surreale definizione di moda nelle riviste di fotografia per costruire una sorta di limbo tra i dilettanti e i professionisti. In quella terra di nessuno il mercato pescava a mani piene, perché vi si aggiravano vite sospese tra la secca d’abitudine di esistenze scandite da ritmi da ufficio ministeriale, impieghi sicuri e cattedre ottenute da un concorso all’altro arrivando vecchi e senza fiato alla propria missione didattica. Avevano soldi da spendere questi qui perché erano disposti a comprare i loro sogni come già avevano da un pezzo imparato a far mercato delle proprie voglie e riempivano borse capienti di attrezzature e obiettivi e camminavano d’estate con il fardello delle truppe coloniali in marcia nel deserto dell’anima.