venerdì 27 maggio 2016

Tempo di scrivere, tempo di guardare



Carlo Naya, Scrivano e traduttore, Napoli, 1865



Carlo Naya, nato a Tronzano Vercellese nel 1816 e morto nel 1882 a Venezia, lega alla città lagunare la sua fama di fotografo. In realtà compì i suoi studi universitari a Pisa e viaggiò molto in Italia e all’estero ma è effettivamente a Venezia che la sua attività di fotografo ebbe chiaro compimento professionale. Normalmente dedicato al racconto della città secondo uno schema narrativo riconducibile all’esperienza dei vedutisti, subisce il fascino del fermento che si muove tra le vie strette della città che i suoi magnifici scorci non sanno certo raccontare. Nella sua produzione affiorano dunque reperti di quella che oggi chiamiamo foto sociale, racconti di marginalità, di piccoli commerci di sussistenza. Una foto notissima, risalente al 1865 e che, colorata, ritroviamo anche nel catalogo di Giorgio Sommer è quella dello scrivano e traduttore di piazza. Realizzata a Napoli questa immagine è una sintesi efficacissima del suo tempo. Siamo agli albori dell’unità d’Italia e il meccanismo di costruzione dell’identità nazionale è ancora lungi dall’essere avviato secondo la strategia che prevede l’attivazione di percorsi scolastici minimi estesi a ampie fasce della popolazione, così da poter costruire una lingua condivisa sulla babele di altre lingue e dialetti che suonano avverse al concetto stesso di unità. Il grado di scolarizzazione in quello che fino a pochi anni prima era il dominio borbonico era piuttosto basso e per leggere le lettere, per scriverle alle persone care che s’erano avviate verso i flussi migratori, toccava chiedere aiuto a persone istruite. Lo stesso valeva per la gestione burocratica della propria vita, documenti, ingiunzioni, chiamate alla leva, tutto quel sistema complesso che oltre la scolarzzazione puntava alla costruzione a tappe forzate di un identità condivisa. Nei vicoli napoletani Carlo Naya fotografa dunque questo scrivano e traduttore ambulante mentre offre i suoi servizi professionali a una donna. Il personaggio ha un aspetto strano, marca la sua immagine di studioso ponendo l’accento anche sui modi e l’aspetto secondo una divertente strategia di marketing. La donna, nella posa cercata dall’artista, guarda allo scrivano come al maestro di porta di un mondo misterioso e irragiungibile.
Sembrano memorie di un tempo lontano.

A Torino quando il tempo è propizio un ragazzo tunisino sposta il suo ufficio all’aperto e riceve i suoi clienti. Permessi di soggiorno, curricula, libretti di lavoro. C’è una piccola fila ordinata in attesa nel tardo pomeriggio e c’è un vassoietto con i biscotti per ingannarel’ansia. Guardandolo mi sono ricordato di Carlo Naya e del mio rifiuto di pensare “le immagini di un tempo” preferendo piuttosto pensare che le immagini hanno tutto il tempo che vogliono. Con buona pace di quelli che non seppero spiegarsi a suo tempo perché il mio racconto per immagini dei giorni del boom economico passasse dai vicoli delle città percorsi dall’acquaiolo e dall’impagliatore di fiaschi. Le fabbriche c’erano, certo che c’erano, perché i racconti valgono tutti. Tutti appunto. E questo me lo son fatto scrivere da un signore alla fermata del tram. Per pochi spiccioli in cambio. Tenetene il debito conto.


Giorgio Olmoti, Scrivano e traduttore, Torino, 2012

lunedì 23 maggio 2016

Di me e di Mario Dondero. Perchè se non si va non si vede.







Il 13 dicembre del 2015, giusto un pugno di mesi e settimane ad arrivare a oggi, muore Mario Dondero. Scrivere “il fotografo Mario Dondero” sembra, nel suo caso, tremendamente riduttivo e, del resto, legarlo a tutte le disparate attività che lo hanno visto mettersi in gioco nel corso di un’esistenza mossa sempre dalla voglia di andare e scoprire, finisce per essere un problema serio. Mario Dondero è il respiro di una pratica narrativa che passa dalle fotografie e dai viaggi e dalla sua voce e da i suoi occhi che nel lampo ti restituivano l’intuizione di tutto quello che potevano aver visto. Alla notizia della sua morte, nel corso della puntata che settimanalmente registro per la radio da quasi trent’anni, ho parlato di lui, l’ho raccontato per come potevo e per cosa sapevo. Quella di parlare di fotografia alla radio è una mia vecchia abitudine e a ben vedere rischia di essere ogni volta una sorta di suicidio mediatico, considerato che la natura stessa dell’immagine fotografica, partendo banalmente dalla sua etimologia, si scontra con il mezzo radiofonico, fruibile dall’orecchio ma indifferente alle lusinghe dello sguardo. Eppure da anni parlo di fotografia alla radio e anche grazie alla diffusione della rete posso appoggiarmi ad altri media per cercare di aggiungere tasselli al mio racconto per immagini immaginate che parte dai microfoni della radio.


Quella sera avrei voluto raccontare Mario Dondero con un approccio scientifico che la pratica del mio mestiere mi offre. Potevo restituirlo all’epica narrativa dell’umano genere da lui costruita nei decenni. Potevo fermarmi sulla natura inclusiva del suo sguardo fotografico, che sentiva come un delitto la perdita d’attenzione anche per le cose minime. Sarei di certo finito a sostenere, come altri prima di me hanno fatto e come ogni tanto, per cenni e intese, pareva fare anche lui, che per Mario scattare le foto fosse servirsi di un magico grimaldello che lo faceva entrare nelle altre esistenze. Quella perenne macchina fotografica al collo gli consentiva di afferrare la natura a volte più intima della misura umana che tutti ci portiamo addosso nel bene e nel male. E per Dondero le vite degli altri, presi uno a uno, non erano solo una possibilità narrativa ma piuttosto un irrinunciabile occasione, quasi una ragione primaria attribuita alla sua esistenza nomade. Perché Dondero fermo in un posto pareva non saperci stare, andava e veniva da Parigi, prendeva casa in una città e poi ripartiva e poi ancora spariva sul serio. Andava e regalava. Perché se partiva lo faceva per andare a regalare quello sguardo suo all’Africa o all’Asia o ai vicoli di una città vicina e conosciuta nelle sue pieghe più profonde o anche solo intuita con quel genio che gli faceva cogliere l’essenza delle cose nella sintesi formidabile di uno scatto. Trovarlo non era facile. Anche quando c’era da parlargli di lavoro. Finiva per apparire da solo quando cominciavi a pensare davvero che non lo avresti visto più, rinnovando la leggenda, costruita anche dai suoi stessi colleghi nel tempo. Già la leggenda. In questi trent’anni di esplorazione della fotografia italiana che mi ha permesso di fare libri fianco a fianco con alcuni dei formidabili protagonisti della stagione del fotogiornalismo italiano, tutti avevano delle storie mirabolanti da raccontare e spesso Dondero era il protagonista. Più di una volta ho sentito raccontare la storia dell’italiano che arriva in uno sperduto villaggio africano e quando il capo tribù capisce da che posto arriva lo straniero, suona tremendamente come una barzelletta e me ne rendo conto, gli chiede notizia di Mario Dondero. Segno che lui e le sue Leica erano già arrivate anche lì. La storia finiva qui o spesso aveva un’ ennesima potentissima appendice picaresca ma si badi che la vera cosa prodigiosa era che a tramandarsi questa vita straordinaria erano uomini fuori dal comune, gente pronta a sfidare il destino per uno scatto, disposti a viaggiare con tutti i mezzi possibili e pronti a guardare con i loro occhi sfrontati la vita e la morte. Gente avvezza alla polvere e che alla polvere, in barba all’ammiccamento letterario, non chiedeva niente ma piuttosto rispondeva. Proprio quella razza lì che, confessiamolo, difficilmente si sbilancia a parlare del lavoro di altri come loro, aveva trovato in Dondero una figura narrativa a cui affidare la costruzione del loro mito e tenerlo vivo.






Con Mario Dondero mi ero incontrato a vario titolo, spesso per caso, ritrovandoci a tavoli in cui condividevamo amici e sorrisi. Mi presentavano e passavamo qualche minuto a ricordarci dove ci eravamo già visti. Cose così insomma. Per ricordarlo però voglio raccontare una cosa che lo vede come protagonista fino a un certo punto ma che è piuttosto una mia storia, parte del mio andare, preso come sono anche io da quella febbre maledetta del nomadismo.

Doveva essere l’inverno del 1997. Mi trovavo in via Tomacelli a Roma, nella redazione degli Editori Riuniti. Stavo mettendo a posto con il grafico l’impaginato del mio libro sul Boom economico, un racconto per immagini dell’Italia alla metà degli anni Cinquanta. Il volume sarebbe uscito di lì a poco ottenendo grande successo di vendite e di pubblico. Avevo coinvolto grandi nomi della fotografia italiana e alcuni sarebbero diventati amici dopo quella esperienza, altri li frequentavo da prima. Gianni Berengo Gardin, Enzo Sellerio, Piergiorgio Branzi, Melo Minnella e tanti altri, avevano contribuito alla costruzione di quel racconto corale. All’appello mancava proprio Mario Dondero ma in quei giorni sembrava impossibile trovarlo. Ci eravamo rassegnati a fare a meno delle sue foto. Era sera. Se non avete mai lavorato in una redazione, sappiate che nelle sere invernali la luce delle lampade che batte sulle bozze è qualcosa che ti si ficca nelle pieghe delle palpebre e ti gonfia gli occhi e tu a correre a filo di penna o matita sulle righe e le parole, sempre in bilico, sempre a mezzo respiro. A una certa ora e d’inverno poi, nelle redazioni si parla poco. Meno. Anche io. Puoi non crederci ma è così. Stavo ultimando la bibliografia di riferimento per poi andare con la metro alla stazione e ritornare a Perugia. In quei giorni facevo la spola tra la casa dei miei nel capoluogo umbro e la redazione di via Tomacelli, in quel ventre costoso di Roma con i negozi delle grandi firme e la marea mugghiante dei turisti che monta a ore fisse e senza ragione che non sia l’influsso della luna. Insomma ero lì dal mattino presto, dopo una trasferta all’alba su certi convogli sgangheri che da Perugia arrivano alla capitale e, per coprire quella breve distanza, toccava pure cambiare e prendere coincidenze al volo. Stanco. Avevo voglia di scendere giù al bar a bermi qualcosa. Volevo però finire. Avevamo già impaginato e mancavano solo i dettagli. A un certo punto si apre la porta e entra il sorriso di Mario Dondero. Ficcato in un cappottone e con una borsa gonfia a pendere sulla spalla. Da giurarci che dentro ci teneva anche la macchina fotografica. Alzo la testa dalle bozze e non ci credo. Lo guardo come si guarderebbe un fantasma. Passato a salutare, così dice. Gli chiediamo se ha una foto degli anni Cinquanta sua da darci per il libro e dalla borsa tira fuori una stampa in bianco e nero su carta politenata. Ridiamo. A pochi secondi dalla fine. A quel punto, mentre il grafico a gomitate fa spazio nell’impaginato per regalare l’onore di una pagina intera alla foto di Mario, rimaniamo lì a scambiarci parole e gli racconto dei miei viaggi con le tradotte che arrivano dall’Umbria e lui ride. Poi facciamo progetti e lui sorride quando cerco di ricostruire la distribuzione tra case e donne e parenti e fughe del suo archivio. Impresa titanica. Ridiamo ancora. Il libro è impaginato e dentro c’è una sua foto, non ho da chiedere altro al mondo. Scendiamo in strada e mi offre da bere, giuro che ho insistito per pagare ma non c’era verso, e prendo un bicchiere schifido di vino rosso che ci fosse stato Piero Ciampi altro che balle, gli avrebbe distrutto il locale a quelli lì. Restiamo ancora lì a lungo. Fuori piove. Poi è tempo di tornare a casa. Ci promettiamo di ritrovarci presto. Come potrebbero prometterselo due tronchi in balia delle onde. E lo sappiamo. Per questo ci mettiamo parecchio a salutarci. E nella borsa ho le bozze definitive e la sua foto. Con quella gioia lì mi avvio verso la stazione.





Prendo un treno di quelli sgangheri, credo si dovesse cambiare da qualche parte ma forse era un diretto per Perugia. Sta di fatto che, nel buio nero dell’inverno e mentre continua a piovere, a un certo punto il treno si inchioda in uno stridere di ruote metalliche e notte e scintille e gente che urla e carrozze che si scuotono e luce che va via e non torna e il pavimento che vibra come a dar conto della morte di quella bestia meccanica. Fermi nella notte. Nessuno capisce cosa è stato. Non si vedono luci intorno. Qualcuno, forse il personale di servizio, scende timidamente con una torcia in mano. Si sente gemere e grida prolungate. Dei versi di dolore. Da tutte le parti e sparse nel buio queste urla salgono al cielo e entrano nel buio dei vagoni. Orrore vero. Poi si comincia a capire. Il treno ha investito un enorme gregge di pecore e col favore della luce riattivata in alcuni vagoni quelli sul treno cominciano a intuire cosa sia successo. Pecore ancora vive incastrate sotto i vagoni, pecore sbranate dal binario e la macchina che stanno sparse attorno come nei peggiore horror da quattro soldi. Altre pecore sopravvissute corrono intorno e sono ombre agghiaccianti, i segugi di Tindalos, le fiere dantesche, un esercito oscuro venuto a chieder conto delle nostre anime di viaggiatori, che c’è da giurarci che l’Ade è lì. La gente prova a scendere e le gambe affondano nella mota. Siamo in mezzo ai campi bui. Piove. Un uomo alto, di colore, con un cappello di astrakan, grida. “Io sono un funzionario d’ambasciata, io sono un funzionario d’ambasciata”. Qualcuno gli chiede di piantarla e tutti gli fanno capire che non gliene fotte un cazzo e che nulla può cambiare a suo favore adesso. E le pecore dentro le ruote e il sangue sulle fiancate e l’odore di pioggia e viscere. Nella mia borsa ho la bozza definitiva del libro. Penso a Mario Dondero e a come mi chiedeva dei miei viaggi giornalieri con il trenino. Mi domandava dei miei viaggi in genere e io a lui dei suoi e ridevamo. Poi non mi ricordo come m’era presa quella cosa mia dei racconti, che non è un caso se qualcuno mi chiama da anni el Cuntà, e gli avevo descritto quelli con cui condividevo i viaggi da Perugia. Insomma ero lì in quella scena tremenda che attivava mille storie nella storia e ho capito cosa aveva cercato di dirmi Mario Dondero quella sera, mentre mi mostrava le foto che aveva in borsa. Ero lì e sapevo che è la strada, l’andare che ti consegna le storie. Poi ci hanno fatto camminare nel buio, dopo ore, con il fango che ai miei anfibi faceva poco ma che forse si mangiava le scarpe del diplomatico colbaccato e del suo codazzo. Una sorta di armata in ritirata. L’anabasi dei pendolari. Siamo arrivati su una strada e sono venuti con degli autobus a recuperarci. Ci hanno portati, mi pare, a Spoleto e in quell’attesa forzata altri lampi di umanità mi hanno regalato storie ennesime. Mi sono ripromesso di tenerne buona memoria per il pranzo del giorno dopo, a Roma, con Mario Dondero. Inutile dire che non è più passato e ho mangiato da solo perché così andava sempre.







Poi Mario l’ho ritrovato ancora una mattina alla stazione di Arezzo. Andava a trovare un amico, una sorta di mecenate che gli faceva fare mostre e libri da quelle parti, uno che avevo conosciuto anche io mentre allestivo a Siena la mostra su Franco Pinna. Gliel’ho raccontata, fuori tempo massimo, la storia del treno e della notte d’inferno. Aveva un lampo negli occhi. Sospetto che gli sarebbe piaciuto fotografare le facce che marciavano nel buio sotto la pioggia. E, nell’oscurità, le foto sono solo una suggestione ma vale la regola che si scatta per entrare nelle vite e nelle emozioni, prescindendo dal favore di luce e con buona pace dell’esposimetro.



L’ultima volta Mario l’ho ritrovato qualche anno dopo al salone del libro di Torino. Ci siamo fatti grandi feste e Stefania era al settimo mese e lui ha voluto a tutti i costi farle un mucchio di foto. Quello era Mario, uno che ti scattava foto che poi non rivedevi mai. Ma io e Ste siamo contenti di averci qualche foto nostra infilata chissà come nell’impossibile archivio randagio di Mario Dondero. Grazie a te.