domenica 26 marzo 2017

Un po' per scherzo ma nemmeno tanto




Nella cantina di un palazzone
tutti i gattini senza padrone
organizzarono una riunione
per precisare la situazione.
Quarantaquattro gatti,
in fila per sei col resto di due,
si unirono compatti
in fila per sei col resto di due
coi baffi allineati,
in fila per sei col resto di due
le code attorcigliate
in fila per sei col resto di due.
Sei per sette quarantadue
più due quarantaquattro.
Loro chiedevano a tutti i bambini,
che sono amici di tutti i gattini,
un pasto al giorno e all’occasione,
poter dormire sulle poltrone!...
… naturalmente tutti i bambini
tutte le code potevan tirare
ogni momento e a loro piacere,
con tutti quanti giocherellare…
Quando alla fine della riunione
fu definita la situazione
andò in giardino tutto il plotone
di quei gattini senza padrone.

Alla decima edizione dello Zecchino d’oro (1) vince Quarantaquattro gatti, cantata dalla piccola Barbara Ferigo. L’anno è il 1968 e quei gattini che si riuniscono nella cantina di un palazzone già ci raccontano l’Italia che, a Miracolo economico bell’e finito, fa i conti con un’edilizia popolare che ha visto crescere nelle periferie delle grandi città, nel nome di speculatori e faccendieri, immensi quartieri dormitorio. Ariempire quei palazzoni è arrivata la manodopera a basso costo, che soprattutto tra gli anni Cinquanta e i Sessanta ha abbandonato le campagne. Per inseguire il sogno di una vita migliore. E i gatti? Hanno fatto immediatamente loro la nuova dimensione urbana e sanno come muoversi in quel ritrovo sotterraneo. Sono felini del loro tempo. La riunione è, il testo risulta esplicito in tal senso, organizzata, e serve a fare il punto sulla situazione, sul presente di randagi costretti a fare i conti con una quotidianità senza certezze. E parte un ritornello che è già incedere a tempo di marcia, di tarantella, più che di corteo, efficace nella sua nota surreale. Meno didascalico di

(…) compagni dai campi e dalle officine
prendete la falce e portate il martello
scendiamo giù in piazza picchiamo con quello
scendiamo giù in piazza e affossiamo il sistema (…)

Capita spesso di sentirla in giro questa canzone in quegli anni.

Manifestazione del PCI. In primo piano si possono riconoscere Giorgio Arlorio, Paolo Pietrangeli, Adriana Martino, G.M. Volontè, Bruno Cirino e Ludovica Modugno. Sullo sfondo Enrico Berlinguer, Giancarlo Pajetta, Luciano Lama.

Vero inno del '68 fu però Contessa di Paolo Pietrangeli, uno studente comunista lettore di "Classe Operaia" e di "Operai e capitale", che la scrive nel maggio 1966 durante l'occupazione dell'Università di Roma seguita all'uccisione dello studente Paolo Rossi da parte dei fascisti, avvenuta il 27 aprile. E la scrive in una notte, prendendo spunto dalle conversazioni che una certa vecchia borghesia faceva a proposito di quell'occupazione e di pretese orge sessuali e dalla cronaca di un piccolo sciopero avutosi a Roma in una fabbrichetta, dove il padrone, certo Aldo, aveva chiamato la polizia contro i suoi operai che facevano picchettaggio. (2)

Sta di fatto che, a distanza di quarant’anni, i gatti marcianti e rivendicanti si sono ritagliati la loro bella funzione iconica e, nel loro proporsi matematico, sembrano davvero aver trovato un appiglio mnemonico formidabile. Nella memoria condivisa a Contessa non è andata altrettanto bene, almeno in base all’esperienza personale, visto che mio figlio, reduce di scuola materna recente, canta ancora le gesta dei gatti sediziosi ma non sa niente dell’industria di Aldo. Qui si potrebbe aprire il baratro del dibattito sull’istruzione in Italia ma siamo ingaggiati in ben altro impegno e passiamo oltre. Torniamo ai nostri gatti. Essi, i felini, intavolano un piano di trattative, una sorta di piattaforma sindacale che vogliamo immaginare portata avanti da un gattone baffuto, che anche l’iconografia vuole la sua parte. La loro controparte sono i bambini, l’utente finale direbbero quelli del marketing, per cui si saltano genialmente tutti i passaggi di mercato e le intermediazioni. Dal produttore di fusa al consumatore di code. E la richiesta è vitto e alloggio, casa e pane. Nella migliore tradizione di quei giorni contestatori e di piazza appunto. Ovviamente non si pretende la gratuità di quelle concessioni ma si cerca di addivenire a un accordo, che stabilisca un reciproco vantaggio senza ledere la dignità di nessuno. Addirittura si riconosce come bene di scambio il piacere, individuato nella pratica diffusa tra i cuccioli d’uomo di divertirsi lasciandosi scappare anche qualche piccola angheria ai danni della classe felina. Stabilito il piano delle trattative, i gatti escono in strada, abbandonano la sotterranea sedizione e marciano per le strade. E forse nell’ultimo verso si raccoglie nella sua completezza l’intera epoca, mentre si dichiara che i gatti suddetti non soggiacciono alla volontà di nessun padrone.

La riflessione su Quarantaquattro gatti e il suo tempo serve a introdurre il senso che ci siamo riproposti di dare a questo viaggio su pagina attraverso mezzo secolo della nostra storia con l’ausilio delle canzoni. Negli ultimi anni lo storico si è trovato nella necessità di ridefinire il suo approccio metodologico, tenendo conto della molteplice proposta mediatica. Cinema, letteratura, televisione, rete, fotografia, solo per citarne alcune, sono titolari di un loro linguaggio che, oltre a farsi prevalente, ridisegna, con le interazioni tra i diversi ambiti, scenari complessi. La sfida deve essere raccolta dallo storico, che da queste nuove fonti può attingere all’identità profonda di una collettività. Nel nostro caso le canzoni interrogate attivano un percorso a ritroso che le ricolloca nel loro tempo di gestione e produzione ma sollecitano anche una riflessione sull’insistenza di quei versi e quei ritornelli sul presente o in altre fasi storiche rispetto a quelle della realizzazione. Lo sviluppo tecnologico è la chiave di volta di questo tipo di ricerca sulla canzone, consentendo di recuperare anche una parte consistente del patrimonio orale che non era stato trascritto ma che trova testimonianza in lacche e nastri.

Innanzitutto, come abbiamo detto, c’è l’effettiva difficoltà di studiare la storia attraverso un documento così complesso. Una canzone è composta da un impianto musicale, da un testo, dalla voce del cantante, dalle sonorità, dai supporti attraverso cui si diffonde nella società. (3)

Il problema che si sono trovati ad affrontare gli storici che per primi si sono misurati con la canzone come fonte è legato essenzialmente alla possibilità che l’analisi, riferendosi prevalentemente alla parte testuale della canzone, finisca per escludere la struttura sonora che è elemento portante del documento sonoro. In altri nostri lavori abbiamo per questo affiancato al volume un supporto digitale che proponesse le canzoni trattate nel volume cartaceo. Disguidi interpretativi possono nascere dalla riduzione della canzone alla mera analisi testuale, mentre bene possiamo immaginare che la stessa è il prodotto dell’interazione di musica, testo e interpretazione. A questo si può ovviare grazie agli spartiti pubblicati e soprattutto all’ampia disponibilità di fruizione offerta dai media. In questo senso auspichiamo che questo nostro viaggio per immagini sonore nell’Italia degli ultimi cinquant’anni diventi il motore di una ricerca libera, che possa partire dai materiali proposti e portare il lettore a costruire un suo autonomo percorso. Intendiamo utilizzare la canzone che, con un termine improprio ma colloquialmente comodo, fa riferimento al repertorio dei cantautori, ma più propriamente ci rivolgeremo alla produzione sonora di artisti singoli e gruppi, che declinino, nel loro percorso creativo, contenuti che possano risultare utili per la lettura di un epoca. Tutte le canzoni sono fonte efficace, ne fa fede la digressione su Quarantaquattro gatti, che è esegeta del suo tempo alla stregua di Papaveri e papere cantata da Nilla Pizzi nel 1952

Lo sai che i papaveri
son alti, alti, alti
e tu sei piccolina
e tu sei piccolina(4)

o di Borghesia cantata da Claudio Lolli venti anni dopo

Vecchia piccola borghesia
vecchia gente di casa mia,
non so dire se fai più rabbia,
pena, schifo o malinconia (5)

Lo storico Giovanni De Luna, in un saggio (4), che è un riferimento metodologico per tutti quelli che intendano confrontarsi con la storia attraverso le cosiddette fonti mediatiche, definisce efficacemente i criteri della ricerca. Superata la visione positivista dello storico, inteso come un ordinatore di documenti, che interagisce con gli stessi con un ruolo prettamente tecnico, che ne azzera la dimensione soggettiva, De Luna auspica la presa di responsabilità del ricercatore. Si tratta dunque di mettersi dichiaratamente in gioco, per quelli che sono gli strumenti legati all’analisi documentale ma anche sulla base di nuove responsabilità acquisite. Lo storico è ora chiamato a un ruolo complesso:

crea le fonti, crea il fatto storico, si propone come un intellettuale che contribuisce a creare identità collettive (6)

Lo storico dunque assume consapevolmente il proprio vissuto e la propria personalità come parte integrante del proprio progetto di ricerca. A garanzia della scientificità di questo approccio l’impegno responsabile dello storico deve essere rivolto all’attenzione con cui si interrogano le fonti, definendo compiutamente il proprio percorso metodologico nell’interazione tra fonti, ipotesi interpretative e soggettività. La sinergia di questi elementi porta all’elaborazione di un percorso nella storia che è eminentemente un percorso narrativo. Lo storico deve raccontare efficacemente.

è proprio nella storia che si fa racconto che si annida il rischio della frigidità intellettuale dello storico, della sua incapacità di creare i personaggi dopo aver creato i fatti e le fonti. (7)

Partendo da questo criterio metodologico, abbiamo deciso di costruire un percorso nella storia italiana degli ultimi cinquant’anni che fosse anche un viaggio emotivo. Le canzoni da utilizzare sono innumerevoli, abbiamo anzi sottolineato che tutte le canzoni servirebbero alla nostra causa, e per quanti sforzi si possano fare ci sarà sempre qualcosa di più efficace e evocativo che non è stato citato. A questi punto, piuttosto che costruire una griglia di selezione dei brani, farraginosa e inevitabilmente destinata a rivelare i suoi limiti, abbiamo deciso di procedere nella selezione con un criterio prevalentemente emozionale, che è poi uno dei motori fondamentali per la fruizione delle canzoni. Per ogni periodo, dagli anni Sessanta a oggi, proporremo delle canzoni che saranno utilizzate perché trasferiscono efficacemente alcuni aspetti di lettura del tempo a cui intendiamo relazionarle. Ci saranno brani che ci racconteranno il processo di industrializzazione degli anni del Miracolo economico e altre che sapranno restituirci i riferimenti appropriati per raccontare il passaggio tra la Prima e la Seconda repubblica. Il criterio di gestione cronologica delle fonti ci consente di raccontare la mafia degli anni Ottanta con una canzone scritta vent’anni dopo e gli anni del Boom economico partendo dal racconto di un film girato nel decennio successivo. Abbiamo però cercato di restringere l’ambito rivolgendoci prevalentemente alla canzone autoriale, ovvero a quei brani che, sia per quel che concerne lo spartito sia per il testo, attivano un significativo criterio narrativo e testimoniale. Siamo ben consci dell’ambiguità della definizione di presunta autorialità, intesa come discrimine tra la canzone densa di contenuti e quella più leggera. Del resto, in altro ambito, ma sempre confrontandosi con la produzione mediatica, lo stesso legislatore s’è trovato di fronte a questo imbarazzo. Come distinguere, in relazione alla tutela del diritto d’autore, lo scatto fotografico eseguito dal grande fotografo da quell’altro, magari altrettanto efficace dal punto di vista narrativo, scattato dal turista di passaggio. La legge arriva a distinguere tra opera dell’ingegno e semplice fotografia, specificando che la prima è il risultato di un processo intellettuale complesso, l’altra è data da un concomitanza piuttosto occasionale di passione e fortuna, non rilevandosi nella semplice fotografia un cursus honorum del realizzante che può farla assurgere a opera riconosciuta e tutelata (9). Questo lo segnaliamo per rendere esplicita la difficoltà di definire opportuni discrimini nell’ ambito della produzione artistica. Resta il fatto che tutte le canzoni sono d’autore e anche tutte le fotografie a ben vedere. Ci rendiamo quindi conto che già la definizione autoriale presta il fianco e ingenera equivoci. Se, invece che sulla pagina, fossimo seduti a un tavolo, ben saldi al vincolo amicale e a piatti e bicchieri colmi, si potrebbe dire “…insomma, ci siamo capiti…”. Così non è, e allora, sfuggendo anche alla trappola della definizione cantautore, per dar migliore ragione del nostro non criterio di selezione delle canzoni, possiamo solo invitarvi a esplorare queste pagine. In quest’ottica ha un senso partire proprio dagli anni Sessanta, quando la canzone, svincolata dall’ambito prevalentemente sanremese, acquista vigore nuovo. Diventa anche autoriale.
A questo punto si può provare a sovrapporre, a quelle proposte in queste pagine, le vostre più efficaci immagini sonore e mnemoniche, in una catena di riferimenti infinita. Ripartireste magari da Quarantaquattro gatti, saltando i riferimenti politici che, a nostro giudizio, non erano così intenzionali in chi ha scritto il pezzo ma piuttosto davano conto del linguaggio di quei giorni. Per la stessa ragione, siamo sempre nel maggio 1968, nelle pagine di Topolino compaiono storie intitolate Paperino e i nipotini protestatari (10). E proprio riferiti all’autore di Quarantaquattro gatti potreste scoprire che il maestro Pippo Casarini, oggi ottantaquattrenne, ha una biografia che da sola è iconica di cinquant’anni della nostra storia. Alla fine della Seconda guerra mondiale, partecipe dell’euforia di quei giorni di ricostruzione, intraprende una vita avventurosa e nomade, suonando nei locali notturni italiani e europei. Arriverà a vivere anche tre anni a Calcutta dove, con la sua musica, accompagna le ballerine inglesi del Blue Bell Girls. Casarini ha all’attivo oltre cento pezzi e già nel 1946, mentre l’Italia si sta ancora scrollando di dosso la polvere dei bombardamenti, su una riviera adriatica ancora lontana dall’essere la meta del turismo di massa che conosciamo, impazza Spirù, il suo ballabile più celebre. Tornato in patria dai vagabondaggi artistici che lo hanno portato in giro per il mondo, negli anni Cinquanta, scorazza per la provincia in una Seicento gravata sul portapacchi, allora si diceva imperiale, dalla mole e dal peso di un contrabbasso. L’utilitaria e l’impegno incessante con i locali italiani sono già segnale di Miracolo economico in corso. A quarant’anni il maestro sente che è ora di cambiar vita. Il bisogno di concrete certezze, il porto sicuro del posto fisso diventano l’urgenza di Casarini e di moltissimi italiani. Il diploma preso al conservatorio, in una parabola che è tutta nella costruzione del ceto medio borghese di quegli anni, torna buono per insegnare musica nelle scuole. Ancora i provveditorati non dovevano accollarsi il compito di tenere in piedi la potente macchina del precariato che esprimono al presente. Sta di fatto che Casarini, ottenuto l’insegnamento in una scuola media del modenese, non ha voglia di rassegnarsi a una vita tutta casa e cattedra. La sera ripassa con le dita sulla tastiera del piano e cerca di farsi venire un’idea. Finchè gli capita per le mani il bando del concorso dello Zecchino d’oro. Quarantaquattro perchè tanti sono i suoi anni mentre scrive la canzone. Gatti perché sono la sua passione, rinnovata in quei giorni, così dice l’agiografo, da una visita romana a parenti in cui aveva visto i felini acciambellati al sole tra i resti archeologici. Formidabile souvenir d’Italie davvero. E da qui il testo e certa evocazione alla protesta che in quei giorni monta. Il maestro viveva a partire dalla fine degli anni Cinquanta a Modena, che in fondo è a un tiro di schioppo da Reggio Emilia e… Forse stiamo forzando la mano. Allora, per dar senso compiuto al nostro esplorare, si potrebbe focalizzare l’attenzione sulla piccola esecutrice del brano, quella Barbara Ferigo portata a Bologna da Gorizia, città capitata sui bordi dei due blocchi postbellici, grossolanamente divisa sulla carta senza rispetto di catasti e parentele, in nome di un nuovo ordine mondiale. In funzione di quel fronteggiarsi a tendere i nervi allo spasimo, che fu l’essenza della guerra fredda. Quanto si potrebbe ancora raccontare partendo da lì e arrivando magari al coro bolognese dell’Antoniano, di marcatissimo riferimento cattolico, specchio di un modo di concepire la televisione, l’informazione, la socialità. A questo punto non ci resta che invitarvi a entrare, coi modi che perdonerete goffi di un imbonitore da baraccone, in questo viaggio di suoni e memoria. Vorremmo però lasciarvi con un altro indizio per il vostro percorso personale. Il maestro Casarini ci riprova con lo Zecchino d’oro del 1974, presentando un brano intitolato Nozze d’argento. Non passa nemmeno la selezione. Già, quello era l’anno del referendum sul divorzio (11).

(…) La storia siamo noi, nessuno si senta offeso,
siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso
(…) (12)


(1) Lo Zecchino d’oro è una rassegna canora per bambini che prese il via a partire dal 1959. Le canzoni erano eseguite da bambini e supportate, a partire dal 1961, dal piccolo coro dell’Antoniano di Bologna. Arrivato fino ai giorni nostri, lo spettacolo ebbe tra gli anni Sessanta e i Settanta un enorme successo, testimoniato all’epoca  anche dalla fortuna discografica di alcune delle canzoni proposte.
(2) Cesare Bermani, Il Nuovo canzoniere italiano, il canto sociale e il movimento, in Nanni Balestrini (a cura di), L’orda d’oro, Milano, Feltrinelli, 1997, pag. 96
(3) Marco Peroni, Il nostro concerto, Firenze, La Nuova Italia, 2001, pag.2. Questo volume, in edizione ampliata, è stato successivamente ripubblicato da Bruno Mondadori nel 2004.
(4) Nilla Pizzi, Papaveri e papere, 1952
(5) Claudio Lolli, Borghesia, in Aspettando Godot, 1972
(6) Giovanni De Luna, La passione e la ragione, Firenze, La Nuova Italia, 2001. Questo volume, in edizione ampliata, è stato successivamente ripubblicato da Bruno Mondadori nel 2004.
(7) Giovanni De Luna La passione e la ragione, Firenze, La Nuova Italia, pg 44
(8) Giovanni De Luna La passione e la ragione, Firenze, La Nuova Italia, pg 51
(9) L'opera fotografica è stata contemplata nell'ambito delle opere protette dalla legge sul diritto d'autore soltanto nel 1979 dalla legge 399/78 e del D.P.R 19/79, in via interpretativa Cass. 1988/84 fondava tale distinzione sull'elemento della creatività dell'opera frutto dell'ingegno dell'autore. Lo stesso criterio fu adottato dalla già citata pronuncia di Cassazione n. 8186 del 4 Luglio 1992 per la quale "Nella disciplina del diritto d'autore di cui alla legge 22 Aprile 1941 n.633, l'opera fotografica …gode della piena protezione accordata dalla legge, comprensiva della tutela del cosiddetto diritto morale d'autore, qualora presenti valore artistico e connotati di creatività, mentre beneficia della più limitata tutela di cui ai successivi artt. 87 e seguenti (in tema di diritti connessi con il diritto di autore), quando configuri un mero atto riproduttivo privo dei suddetti requisiti.".
(10)              Paperino e i nipotini protestatari, in Topolino, 26 maggio 1968, pgg 3-7
(11)              Il 12 maggio 1974 gli italiani sono convocati alle urne per decidere se abrogare o meno la legge Fortuna-Baslini del 1970, con la quale era stato introdotto in Italia il divorzio.
(12)              Francesco De Gregori, La storia, in Scacchi e Tarocchi, 1985

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