martedì 16 febbraio 2016

Appunti dal futuro













Quando lavoravo in casa editrice come photo editor un paio di volte alla settimana, a spezzare la consuetudine con le agenzie e con la digitalizzazione sistematica di tutte le narrazioni iconografiche possibili, la scrivania mi si riempiva di foto stampate su carta politenata. Generalmente erano foto in bianco e nero perché pare che regalino una potente suggestione autoriale, soprattutto tra quelli che di fotografia non capiscono niente. E una volta su due erano personaggi che m’avevano chiesto per mesi udienza, non che fosse difficile raggiungermi ma questi me li dovevo gestire a dosi misurate per non esserne consumato. Arrivavano e mi piazzavano davanti albi ingrassati da stampe di pregio. Alcuni fotografavano ancora su pellicola. Ingrandimenti che dovevano essere costati parecchio e che quelli del laboratorio avevano fatto stampando su carta fotografica dal computer quei ricercatissimi negativi preventivamente passati allo scanner. Tutto è file o tutto lo diventerà. E questi poveracci s’erano dannati a scattare in ossessione di posa e impugnando esposimetri spot che potevano raccontarti con intima precisione la millimetrica natura della luce. Andavano a ritirare le stampe e pagavano convinti che nel retro ci fosse un omino che stampava alla luce rossa della camera oscura, passando la carta dallo sviluppo al fissaggio con consumata abitudine.  E la grana dei loro negativi, sparsa con casualità era stata intanto sostituita dai pixel geometricamente ordinati della stampa digitale ma loro non sospettavano l’oltraggio alle loro gelatine sensibili primigenie e si guardavano le stampe valutando con orgoglio la gamma dei grigi. Al fotografo di quella pezzatura piaceva e piace pensare di saper vedere cose che non esistono nel suo cervello. Parlava di incisione, di contrasto e cose così perché l’avevo letto nei blog e nelle riviste. Una galassia umana tragica e dalla creatività in avanzato stato di ottundimento. Gli stessi che scrivevano e scrivono in rete l’opinione su qualsiasi oggetto e coltivavano passioni tenaci ma la fotografia era la loro ossessione su tutto. Scattavano e poi caricavano sui siti di condivisione, non luoghi dell’attenzione in cui ognuno sta concentrato sulle sue cose e lo scambio eventuale tra utenti è funzionale solo all’attivazione di reciproche attenzioni che sono monumenti alla solitudine. Io guardo le tue foto se tu guardi le mie e ti farò i complimenti ma dentro continuerò a pensare che tu ora starai guardando e capirai che io sono molto più bravo di te. Lo pensano entrambi e allo stesso modo si fanno grandi complimenti.

A un certo punto della loro ossessione autoriferita iniziavano a chiamare me e a scrivermi e con il copia incolla prendevano contatto con altri trecento miei omologhi della macchina editoriale sparsi per il mondo. E un giorno varcavano la soglia di quel mio ufficio ingombro di vecchi giri di bozze e copertine abortite e stamponi e tipometri. Entravano timidi e mi mettevano le foto davanti, decisi a giocarsi la carta dell’umiltà. Ma io lo sapevo che non sarebbe durata molto. Scorrevo le foto, che la curiosità s’attiva sempre ma poi viene inevitabilmente sostituita da una pratica minima della cortesia. Una volta su tre le foto erano la memoria di un viaggio in India. Sospetto che per noi le pagine salgariane abbiano costruito nel tempo un immaginario esotico condiviso che prescinde ormai dalla lettura e che piuttosto è una sorta di tara genetica. Quelle foto dell’India, anno dopo anno, albo dopo albo, erano sempre uguali. C’era un tizio con il turbante seduto a gambe incrociate a bordo Gange. Guardava in macchina e fissava dritto me. Lui pareva averlo capito che tutte quelle foto della sua faccia in bianco e nero per enfatizzare i segni della pelle e gli occhi strizzati dal sole e la magrezza che lo davano in odore di santità,, che in India tutto è santo di qualcosa d’altro, negli anni sarebbero arrivate alla mia scrivania. Lui guardava proprio me in quelle fotografiee c’era complicità. Entrambi campavamo grazie a quel cerchio che iniziava quando lui accettava qualche rupia per farsi fotografare e si chiudeva quando fingevo di guardare assorto quel racconto politenato in bianco e nero. Non riuscivo a non guardarlo, a non fermarmi su quella faccia che avevo imparato a conoscere. Quasi m’accertavo che da un fotografo all’altro, da un albo all’altro, il mio complice se la passasse bene e potesse tenere botta per altre mille foto ancora.
A realizzare quelle immagini non erano mai i professionisti, quelli sono sciacalli furbi della comunicazione e non si sognerebbero di presentarsi a un photoeditor con la foto del santone del Gange a meno che quest’ultimo non fosse stato strangolato da un Thug. Maledetta incancellabile memoria salgariana che torna come un rigurgito a ogni suggestione d’esotico. Quelli che facevano quelle foto amavano definirsi “amatori evoluti”, recuperando una surreale definizione di moda nelle riviste di fotografia per costruire una sorta di limbo tra i dilettanti e i professionisti. In quella terra di nessuno il mercato pescava a mani piene, perché vi si aggiravano vite sospese tra la secca d’abitudine di esistenze scandite da ritmi da ufficio ministeriale, impieghi sicuri e cattedre ottenute da un concorso all’altro arrivando vecchi e senza fiato alla propria missione didattica. Avevano soldi da spendere questi qui perché erano disposti a comprare i loro sogni come già avevano da un pezzo imparato a far mercato delle proprie voglie e riempivano borse capienti di attrezzature e obiettivi e camminavano d’estate con il fardello delle truppe coloniali in marcia nel deserto dell’anima.

sabato 25 luglio 2015

i Lazzaroni vanno alla guerra





Tutto comincia da una foto. La guerra è quella d'Etiopia. In uno scontro tra le truppe coloniali italiane e i resistenti etiopi viene ucciso il deggiac Hailù Chebbedè, uno dei capi della guerriglia nei territori del Goggiam. Le foto, perchè ne conosciamo un'intera lunga sequenza, sono state scattate da Angelo Dolfo, un professionista al seguito delle truppe italiane, oggi si direbbe embedded. La testa del deggiac, ucciso in uno scontro il 24 settembre 1937, fu messa in una scatola di latta originariamente destinata a contenere biscotti Lazzaroni e portata in giro tra i villaggi e infine esposta su una forca al mercato di Quoram per ordine, parlano le carte d'archivio, dello stesso vicerè d'Etiopia, Rodolfo Graziani. La sequenza mostra la scatola che viene aperta tra i ghigni dei soldati italiani, si legge bene la scritta "Lazzaroni" sulla latta, e poi ancora la testa sospesa a una forca con dei giri di filo di ferro a cingerla in un ultimo oltraggio.

I biscotti Lazzaroni erano quelli nelle scatole di latta gialla che trovavo a casa delle zie. Nei salotti bui e gozzaniani dell'estate al sud le voci parlavano basse, che tutto poteva chiamare il caldo che fuori ammazzava le strade e ogni tanto da certi sportelli segreti venivano tirate fuori quelle scatole che contenevano una dovizia di pasticceria da pomeriggio, da thè, da salotto della zia. E sceglievo sempre quello con la ciliegia candita o quell'altro con la cioccolata a coprirne metà che se lo trattenevi per più di una frazione di secondo tra le dita ti marcava le impronte e denunciava le tue preferenze in materia di biscotti.
Le scatole di biscotti erano anche comode per tenerci i soldatini e tornavano buone anche per farci delle trincee di fortuna per quell'esercito di plastica dalle fusioni approssimative, brutta copia di quegli altri costosi che facevamo bella mostra sugli scaffali del negozio. Erano una risorsa infinita quelle scatole di latta, potevi suonarci sopra i tamburi come nei film di Tarzan e io ci tenevo le rane che prendevo negli stagni in campagna.

Il mio mestiere passa dalla lettura della storia attraverso le immagini e ho lo stomaco del medico legale al tavolo settorio e difficilmente mi ritraggo. Quando però ho visto la scatola dei biscotti Lazzaroni usata per portare in giro l'orrore m'è sembrato un oltraggio alla mia più intima memoria domestica e ho avuto un sobbalzo. Del resto uno degli orrori più potenti della guerra è che non conosce la dimensione intima, domestica, piomba su tutto e tutto dilania assetata di morte e morte e morte. E allora ho provato a raccontare una storia a mia volta immaginando il nemico, un generico nemico di una guerra che all'inizio non è collocata nelle coordinate di spazio e di tempo di pertinenza ma piuttosto rimane in un limbo che è la terra di nessuno del dolore che tutte le guerre portano. Un nemico solo sussurrato che a un certo punto diventa carne e urla e morte. Quel racconto nelle mani di Loris Vescovo ha preso il passo di una storia da portare sui palchi dei teatri. Colonie è una storia in cui i nemici si confondono con le vittime e ci sono italiani e tedeschi e etiopi e russi e la guerra che è sempre la guerra maledetta, perchè non c'è la guerra buuona e quella cattiva.





Da piccole mia nonna ci ha insegnato a distinguere il bene dal male attraverso i suoi racconti, che erano un intreccio fitto di parole a fil di voce, con le sue dita mosse nell’aria come mantidi tese ad afferrare la nostra attenzione. Il bene era tutto concentrato nelle storie di solidarietà, di lealtà, di generosità, di dignità, tutte parole con un accento che scoppia in fondo per dare clamore a quello che devono evocare. Il male era una massa densa e scura di gesti che andavano dal sorriso negato alla morte inferta. Ci voleva poco a capire che il marcatore del male, una sorta di prova del nove quando ti afferrava qualche dubbio etico, passava tutto dal dolore degli altri che avrebbe potuto essere anche il tuo dolore.



Uccidere, assassinare, strappare alla vita, colpire, tagliare, smembrare. Il delitto orrendo, quello maledetto di cui non ci si deve macchiare mai. Assolutamente. Questa idea ce la portavamo dentro piantata a cuneo, qualcuno canterebbe, tra l’aorta e l’intenzione.  Sembrava una certezza incancellabile. Fino a quando s’è cominciato a parlare del nemico. All’inizio erano vaghe allusioni, più un dirselo per bisbigli, guardandosi attorno per vedere se ad ascoltare c’erano i più piccoli. In ragione del fatto che i bambini non sanno dominare la paura. Così si diceva tra adulti. Nei giorni successivi però il nemico s’è imposto nei nostri gesti quotidiani come una presenza carica di angoscia ma sempre con quel sospeso che non sai afferrare. Dentro, in fondo alla pancia, dove va a frugare la bestia fottuta della paura, scattava un meccanismo di difesa piuttosto elementare che ti sussurrava “vedrai che non è vero”.




Un giorno vidi il cane dei vicini precipitarsi su un uccellino, un nidiaceo caduto dal tetto e rimasto sul piazzale stordito e incapace d’essere volo. Il cane lo afferrò e in quel morso e in quello scuotimento c’era già il senso di una fine ineluttabile. Eppure corsi a vedere, negando l’evidenza di quella violenza, sperando di non trovare quella morte che già sapevo. Già… sperando. Sempre per quella difesa minima che possiamo permetterci quando è già difficile darci definizione plausibile del male.




All’inizio il nemico aveva forma di nebbia nei nostri racconti. Mai concreto, era da subito maledettamente cattivo, maledettamente efficiente nella sua pratica dolorosa e nell’altra valle dice che li hanno portati sulla riva del torrente e poi uccisi lasciando i corpi ad avvelenare l’acqua. Ma prima hanno bruciato, violentato, mutilato, deriso, rubato. A ogni nuovo racconto della stessa storia s’aggiungeva un particolare ennesimo, qualcosa che fino a quel momento non s’era riusciti neppure a immaginare. A riprova che anche con la fantasia il nemico ci superava. Una fantasia esercitata con la morte assegnata d’ufficio, ancora, una fantasia che noi non sapevamo eccitare nei nostri pensieri. Perché, ve l’ho già detto, l’assassinio era per noi il peggiore di tutti i peccati.





Ora sono mesi che questa guerra continua e non servono più i racconti, perché il fumo che si alza nero dagli altri villaggi lo sappiamo vedere anche senza indicarcelo con il dito puntato. Del resto tutti i racconti hanno perso la foga dei primi tempi. Ora quello che c’è da sapere lo leggiamo sulla faccia dei nostri che tornano. Le ferite sono sangue vero che azzera tutti i bastioni difensivi dietro cui abbiamo asserragliato i nostri pensieri. La realtà non lascia nessuno scampo ai dubbi. Non c’è più “sarà vero?”, sostituito da un lacerante “vorrei non lo fosse”. A darci conferma che anche da adulti dominare la paura è un bell’azzardo. E uccidere non è più una colpa incancellabile e la nostra regola più rigida si piega ogni giorno alla convinzione che monta dentro gli uomini del nostro villaggio. Uccidere non è più una colpa maledetta e basta, adesso è chiaro che la misura della colpa sta tutta nel colore del sangue che ora, mentre torni al villaggio, t'ha sporcato le mani. Ci sono i morti giusti e quelli sbagliati. Ci sono i morti. Quest'evidenza lacerante ci ha rubato i giorni e il respiro del sonno. Abbiamo paura di morire e paura della maledizione che i nostri uomini si portano addosso con il sangue dei nemici. Ci hanno fatto a pezzi. Ci hanno sbranato la libertà di non voler ricevere e dare dolore. La libertà appunto.





Poi i nostri uomini sono spariti. Non sono più tornati al villaggio. Al tramonto partivano e tornavano a giorno fatto. Restavano lì, buttati in un angolo a dormire con un respiro di cui avevamo paura di riconoscere l’alito. Le armi in piedi, appoggiate alle pareti, e i più piccoli che le spiavano in bilico sul divieto assoluto di toccarle, di pensarle, di sfiorarle. Gli uomini di giorno parlavano solo tra loro, a bassa voce. Mangiavano quel poco che si riuscivano a procurare le donne e poi dormivano. La nonna ci diceva di non fare rumore per non svegliarli ma noi avevamo visto mille volte i nostri padri, gli zii, i fratelli, i cugini e i vicini di casa buttati lì per terra con gli occhi sbarrati nel vuoto. Lo sapevamo che quello non si poteva chiamare sonno. E poi erano partenze e ancora ritorni. Quando li vedevano risalire verso il villaggio le donne da lontano tenevano il conto e cercavano di leggere nel passo pesante di quell’ultimo tratto di sentiero l’esito di quella notte ancora maledetta. I feriti già da lontano venivano valutati ma erano tornati e già era qualcosa. Poi c’erano quelli che non ricomparivano sulla strada del ritorno e vecchi e donne che piangevano di un lamento silenzioso, chè tutto ormai andava misurato sulla paura d’essere solo intuiti in quel lembo di terra che pensavamo nostro da sempre. Poi gli uomini, tutti gli uomini, hanno smesso di tornare e qualche donna ha preso le armi rimaste ancora al villaggio ed è stata inghiottita dall’orrore oltre la collina. E il fumo c’era sempre ma ora ne sentivamo anche l’odore.







Sono arrivati al villaggio la prima volta. Sono scesi dai camion e gridavano. Polvere sollevata e le poche bestie che correvano terrorizzate e bambini che piangevano. Tutti correvano senza sapere dove. Il prezioso contenuto delle pentole magre restava abbandonato al fuoco o rovesciato in terra e nemmeno i cani a lappare. Gridavano quegli uomini, coperti di panni tutti uguali e armi, molte più armi di quante ne avessimo mai solo sospettate oltre la collina. Non capivamo ma c’erano altri uomini, vestiti come i nostri, con la faccia e le mani come quelle dei nostri che non erano tornati ma non era un buon motivo per dimenticare. E poi c’erano quegli altri, come e peggio di tutti i racconti. Ce li avevamo davanti. Esistevano sul serio se esistevano quelle grida e la polvere e i bambini che piangevano. Erano pochi e davano ordini a quegli altri, gente come noi ma qualcosa ci diceva di non fidarci. Ci hanno radunati e qualcuno ha parlato nella nostra lingua. Volevano sapere dov’erano gli uomini, volevano che s’ammucchiassero le nostre provviste sui loro camion. Poi sono arrivati due di quegli uomini cattivi con la pelle chiara. Trascinavano mio zio. Era vecchio mio zio.  L’hanno portato al centro dello spiazzo e hanno iniziato con le botte e non ci potevo credere a sentire quel rumore. Non lo sospetti fino a quando non lo senti che le ossa che si rompono hanno il rumore dei rami spezzati, della legna che si spacca alla fiamma la sera. L’hanno lasciato morto lì.





 A volte non li vedevamo per settimane. A volte arrivavano e si fermavano qualche notte al villaggio. Mangiavano tra loro. Noi non esistevamo. Di giorno non esistevamo. Una sera vennero da noi mentre dormivamo con quel sonno che era stato dei nostri uomini che tornavano al villaggio. Mi trascinarono via. Mi portarono in una capanna e c’erano altre ragazze del villaggio. Ci strapparono i vestiti e nessuna gridava. Per la maledetta vergogna che nelle altre capanne capissero quello che ci stava per accadere. Sei soldati mi hanno afferrato e ridevano e puzzavano e si sono ficcati dentro di me e mi facevano male e graffiavano e mordevano e mi scavavano. Poi uno mi ha girata a pancia sotto e, con la bocca che mordeva la terra e mentre gli altri ridevano mi ha scavata ancora più forte e m’ha fatto morire le urla in gola. Ci hanno riportato all’alba alle nostre capanne. Nessuno mi ha detto nulla ma le donne sapevano. Lo sapeva anche il sangue che si raggrumava sulla tela povera di quello che restava del mio abito. E poi per altre notti, fino a farci andare da sole a testa bassa alle capanne dei soldati. A volte erano come noi, a volte erano quegli altri con la pelle chiara. Cattivi.



Un giorno è arrivata una macchina e sono scesi alcuni uomini che, a giudicare da come si muovevano gli altri, dovevano essere dei capi importanti di quelli lì, degli italiani. Già, a un certo punto avevamo iniziato a chiamarli così, senza idea di dove potesse mai essere la loro terra, la loro madre. Gli italiani erano lì e non si sapeva da dove fossero venuti. Una punizione certamente. Ci radunarono ancora e uno reggeva una scatola di latta che originariamente, ma non potevamo sospettarlo, era destinata ai biscotti. C’era scritto “Lazzaroni” su quella scatola. L’uomo che la reggeva l’aprì. Dentro c’era la testa di mio padre.


Quando arrivò, il respiro degli italiani arrivò dal cielo e si rubò il nostro di respiro. I gas, i gas, gridavano tutti e quante parole nuove avevamo imparato in fretta. Ma la fretta non bastò a nulla.  L’aria degli italiani uccise la nostra aria e al villaggio dopo non restò che fare i conti con la polvere. E una vecchia scatola di biscotti di latta incrostata di sangue.



"Colonie" sul palco del Mittelfest

 

giovedì 26 marzo 2015

WAR IN PROGRESS



Come in un film







http://www.repubblica.it/tecnologia/sicurezza/2015/03/03/news/cyberjihad_califfato_islamico-108630397/?ref=HREC1-2


Segnalo il link a un interessante articolo pubblicato su Repubblica del 3 marzo 2015 a firma di Arturo Di Corinto. Si tratta di un resoconto in cui si affronta il tema del confronto mediatico, che è uno dei fronti su cui si giocano prepotentemente le guerre della contemporaneità. Una sorta di corrispondenza di guerra, se teniamo conto del fatto che la rete è diventato un potentissimo agente di storia e che dalle sue maglie passa il reclutamento, l'analisi strategica, i flussi di denaro e le variazioni di mercato riferiti al conflitto in atto. Si prendono in considerazione le strategie degli hacker occidentali e in special modo quelli che si riconoscono nella linea ideologica di Anonymous e le strutture informatiche riferite alla Jihad islamica e all'Isis. La sintesi dell'evoluzione di questa vera e propria guerra digitale, incentrata sui criteri della propaganda attraverso i media ben noti già ai conflitti novecenteschi ma anabolizzata, nella sua possibilità impattante, dalla capillarità della veicolazione attraverso la rete, rivela fondamentalmente un dato che mette in crisi anche la definizione di guerra asimmetrica. I due fronti digitali sono sostanzialmente governati da strutture cresciute con lo stesso bagaglio tecnico e la stessa nozione della rete e della condivisione. Le distanze culturali che pure si evincono enfatizzate proprio dai materiali video che circolano ad opera delle strutture informatiche sono azzerate proprio nell'utilizzo della rete e dei sistemi di programmazione e gestione. Anche i linguaggi sono condivisi. il video del pilota giordano barbaramente trucidato chiuso in una gabbia a cui viene appiccato il fuoco è girato secondo criteri narrativi filmici cari al cinema d'azione e di avventura, i punti di ripresa sono diversi e denotano una precisa conoscenza del linguaggio filmico ma anche una profonda suggestione di certi temi epici. La musica enfatizza come nella tradizione delle colonne sonore e la stessa vittima pare caricarsi, è una mera suggestione indotta da quelle immagini sapientemente montate, di una consapevolezza attoriale che accentua drammaticamente i toni della narrazione. Il montaggio è alternato da immagini dal taglio statico, particolari degli occhi alla Sergio Leone e armi e polvere che si alza dalla sabbia arsa per aprirsi di colpo a panoramiche sullo spettrale patibolo in scena tra le rovine e sugli uomini in armi. Soldati tutti uguali nella posa, dal viso celato, spuntano tra le rovine, ancora potente suggestione filmica e hanno preso il posto di quell'esercito gaglioffo in cui ognuno vestiva i suoi panni e s'agitava senza disciplina, che era al centro dei primi video di rivendicazione. Tutto è ormai in una potente liturgia scenica. Le fiamme vengono appiccate alla gabbia e la mia descrizione non procederà oltre, partendo da una striscia di benzina che corre sul terreno e che viene innescata dalla fiaccola del carnefice. La fiamma corre sulla terra lenta generando tensione ennesima filmica. Del resto che ci sia stato un salto qualitativo nella confezione di prodotti multimediali di propaganda è ben chiaro anche nei video che celebrano la presa delle città libiche. Lunghe teorie di pick up Toyota, la marca giapponese pare agire in regime di monopolio tra le fila di questo esercito ma in realtà la supremazia di questo gruppo automobilistico è cosa nota sui mercati asiatici e africani anche a prescindere dalle forniture ai militari dell?isis, sfilano per le strade e vengono filmate anche dall'alto da droni. A guardarle sembrano delle vere e proprie pubblicità, I fuoristrada sono tutti nuovissimi e portano sulle fiancate i colori dell'Is. Ancora una volta il linguaggio ci è estremamente familiare, è il nostro. A questo punto viene da credere che in questa idea di guerra asimmetrica ci sia uno spazio di equilibrio generato dall'ipotesi che i fronti digitali non abbiano fatto nessuno sforzo per adeguarsi al linguaggio dei loro avversari ma siano piuttosto cresciuti parlando la stessa lingua, guardando gli stessi film, attivando le stesse strategie di comunicazione sui social network. Una sorta di moderna guerra di posizione. Trincerati dietro un cablaggio ad aspettare la mossa del nemico.













Come nella realtà 






"Ho letto un episodio della guerra in Iraq in cui i membri di un plotone dell'esercito USA erano stati accusati di aver stuprato una ragazza di 14 anni e di aver massacrato la sua famiglia, sparando in faccia alla vittima e dando fuoco al suo corpo. Com'era possibile che questi ragazzi si fossero spinti tanto in là? Cercando le risposte a questa domanda, ho letto blog di soldati e libri. Ho guardato i video di guerra artigianali realizzati dai militari, ho navigato nei loro siti e ho esaminato i loro post su YouTube. Era tutto a disposizione e tutto su video."
 Brian De Palma a proposito di Redacted.


Nel 2007 Brian De Palma arriva nelle sale cinematografiche con Redacted, un film ambientato in Iraq, nella città di Samara e più specificamente riferito alla quotidianità di alcuni militari statunitensi impegnati nella gestione di un checkpoint. In bilico tra improvvisi picchi di adrenalina e una noiosa routine spesa tra lunghe statiche ore di servizio e il tempo libero giocato nei limiti fisici del campo, sotto le tende e sulle brande. Al culmine della vicenda c'è una notte di follia in cui alcuni dei militari protagonisti di questo racconto corale entrano in un'abitazione violentano una ragazzina e massacrano oltre a lei tutta la famiglia.

Questa trama, che si costruisce su una tensione crescente è il pretesto per una riflessione sui media e soprattutto sul racconto attraverso le immagini. La vicenda è raccontata dal regista passando da una molteplicità di tecniche narrative, prevalentemente d'uso amatoriale. Ovviamente si tratta di finzione filmica ma il racconto si avvale della coralità testimoniale di diverse possibilità narrative offerte da tecnologie e linguaggi mutanti di cui si impossessano utenti diversi e con modalità differenti. i media coinvolti per la  costruzione di questo racconto filmico sono i blog, la televisione (sia come prodotto televisivo da realizzare che come prodotto realizzato e fruito), le videocamere amatoriali, canali in rete tipo Youtube e piattaforme di comunicazione in rete tipo Skype, siti americani e arabi, videocamere di sorveglianza a bassa definizione, registrazioni video per uso investigativo, rapporti cartacei.Questo film è una riflessione addirittura ossessiva, coerentemente con altre opere del regista, sulle immagini e sulla prevalenza nella nostra realtà del rappresentato. La vicenda nel finale precipita in una tragica spirale di follia burocratica che mette alle corde il pacchetto uso esportazione del sistema democratico ma più che sui fatti, che pure sono lo specchio tragico del reale, quello che pare più interessante è proprio l'utilizzo dei diversi media coinvolti. Addirittura uno dei soldati filma tutto perchè sogna di essere ammesso in una scuola di cinma e, a conferma dell'idea che questo racconto è la lucida visione del presente, questo narratore privilegiato della vicenda sarà lo stesso che, rapito dai guerriglieri, verrà filmato mentre viene decapitato.

L'interazione tra media diversi è la lettura efficace del presente e a scriverne già su un blog che linkerò alla mia pagina facebook e che proporrò su una piattaforma didattica ci racconta quanto sia penetrata a fondo la riflessione di Brian De Palma sul racconto del presente, forse prescindendo anche dalla qualità del presente stesso. Non è un caso dunque se alla fine del film segua una lunga galleria di foto scattate nei luoghi in cui è ambientata la vicenda riattivando quel cortocircuito dell'informazione che, in bilico su vero o falso, su quello che è ripreso dal vero e quello che racconta il vero ricostruito, è la caratteristica di questo nostro tempo in cui memoria domestica e memoria collettiva non hanno confini distinti e le tecnologie a basso costo e di facile gestione moltiplicano all'infinito i racconti e i punti di vista.


Il film può essere visto a questo link


https://www.youtube.com/watch?v=4hfYBl4MNfk 






domenica 30 novembre 2014

TEMPO DI UCCIDERE, TEMPO DI MORIRE







Giorgio Olmoti, tempo di uccidere, Torino 2014




“Ci fu un tempo in cui gli uomini, per fare le fotografie, dovevano procurarsi la pellicola e erano già più fortunati dei loro antenati che avevano a disposizione solo delle lastre di ferro, di vetro, di marmo per l’ultimo scatto. Ci fu ancora un tempo, ragazzo mio, in cui le pellicole erano tante e ognuna serviva a qualcosa di speciale ma poteva essere impiegata un po’ per tutto. Al massimo nella tua macchina fotografica, una volta caricata, c’erano trentasei possibilità ma qualche produttore di pellicola abbondava e se eri fortunato ne potevi fare anche trentotto a spanne. La pellicola era una sorta di nastro magico che aveva le sue ossessioni e un comportamento compulsivo tipico di quelli che fanno cose incredibili ma non sanno trovare misura nella quotidianità. Andava maneggiata al buio, era l’unica vera possibilità dell’umano di confrontarsi con l’esperienza tattile per bella necessità e non per diletto, sempre escludendo la pratica erotica in cui quello che tocchi può trasformarsi in quello che senti e fai sentire. Dovevi starci attento alla pellicola, era cosa viva e soffriva il caldo e odiava la curiosità poliziesca, uguali sempre io e la pellicola, all’aeroporto con i raggi fruganti nel bagaglio che rischiavano di innervosirla e alterarla. Ci fu un tempo, credimi giovane amico, che quando avevi scattato, potessi fartelo sentire quel singhiozzo tra le dita dell’otturatore che mordeva la luce, non s’era concluso il rapporto con l’immagine, con il racconto. Bada bene, il tuo racconto, proprio il tuo, solo tuo. Dovevi riavvolgere la pellicola e sviluppare e stampare e ogni volta intervenire proponendo soluzioni che erano la magica interazione tra caso e necessità. Per quanto scientifico e misurato fosse il tuo processo la variazione era una costante ineliminabile e i risultati sempre frutto di un equilibrio che aveva ragioni inafferrabili. Forse la ragione di tutto questo sta nella disposizione e non parlo dell’animo ma piuttosto della grana della pellicola, di quei corpicini reattivi che vivevano nella gelatina della pellicola e che ne sapevano di fisica e di chimica e di emozione. Erano disposti casualmente quei granuli, alogenuri d’argento che erano preziosi oltre la nozione che gli indici di borsa possono raccontarti di quel metallo perché erano contenitori efficienti di memoria, erano le parole per scrivere in un altro modo. Ora i pixel fanno il loro lavoro con buona lena e bella possibilità ma stanno ordinati matematicamente e non conoscono la magia del trovarsi per caso. C’era un tempo che per fare le fotografie dovevi spendere dei soldi che ripartiti per ogni singolo scatto erano un senso della tua scelta estetica. Attivavi motori critici perché mica potevi scattare a raffica tutto quello che vedevi. Un processo di sintesi che negava mille possibilità che il presente, percorso dalla piena della fotorrea che gonfia le reti, soprattutto quelle a alto tasso di socialità, e le memorie sempre più capienti dei nostri archivi domestici. Riducendo per assurdo la possibilità del racconto, la sua meravigliosa personalizzazione. Vabbè c’era quel tempo e fare le foto m’ha dato da vivere e m’ ha dato da raccontare con gli occhi, e quando quel modo di trovare m’è morto tra le braccia come il migliore dei miei cani io non sono più riuscito a raccontare serenamente con le immagini. Certo ne scatto ancora di fotografie, come tutti, e devo dire che aver saputo domare certi carrarmati di acciaio e lenti mi serve ora a ottenere risultati che per l’utente medio sono generatori di continue meraviglie. Mi sono affezionato alle mie reflex digitali, ho una macchina fotografica che resiste agli urti della mia vita e questo è un vero prodigio della tecnologia. Non ho mai odiato il progresso e le tecnologie che propone, anzi, ma c’era un altro tempo e sentivo di dovertelo raccontare, senza saperne nemmeno con chiarezza il motivo, forse solo perché quel tempo è la misura delle mie passioni di allora e di quelle di oggi e forse solo perché se tu sei mio figlio, nessuno meglio di te può dirsi misura delle mie passioni.”


Daniele si sta appassionando alla pratica del racconto fotografico e gli ho dato una delle mie reflex. Se l’è portata nella sua stanza e ha cominciato ad annusarla e a guardarci dentro e poi di nuovo annusarla. Come conosco quel corteggiamento, come riesco a leggere l’emozione dello scoprire e del conoscere. Continuo però, nel rispetto della mia personalissima pratica della Danipedia, a far finta di niente. Me lo sono visto tornare a cercarmi per chiedere  e voleva capire sul serio. A quel punto ho pensato che, per spiegarmi meglio, dovevo andare alle radici di quella storia e ho aperto il baule in cui conservo le macchine fotografiche e gli obiettivi e gli accessori che mi hanno dato da vivere per una parte consistente della mia vita. A dire il vero un mucchio di materiale, quando avevo bisogno di soldi, me lo sono venduto per un pugno di euro, ma quello che m’è rimasto lo terrò per sempre e non permetterò più a nessuno di comprarsi, a qualsiasi prezzo, altri pezzi della mia vita. Ho lasciato perdere le macchine medio formato e mi sono concentrato sulla venere cicladica di tutte le macchine fotografiche, sulla concupita dea della fotofertilità. Ho aperto una vecchissima borsa di pelle e ne ho cavato fuori una Niikon FM2, avrei potuto scegliere la progenitrice FM ma ho voluto concedere una possibilità al mio vezzo e quella è la macchina con cui ho raccontato meglio, non certo quella con cui ho lavorato di più ma piuttosto quella che si portava dentro i miei scatti più cercati, sempre facendo a morso e bacio con la luce e il buio. Volevo mostrarla a mio figlio, come a stendere la mano e a fargli vedere le linee mie che corrono verso una morte che c’è già stata mille volte.
La Nikon FM2 è un prodigio meccanico, scatta fino a un quattromillesimo di secondo e non ha nessun ausilio elettronico. Dentro è riempita di ghiere, molle e ingranaggi e scatta sempre, non c’è nulla che la possa fermare. Un sistema a orologeria che ti ronza tra le dita nelle pose lunghe e che mi dava la sensazione di poter scattare da lì all’eternità. Poi è andata com’ è andata ma questa è un’altra storia, che l’eternità è sempre la solita puttana e già sappiamo che non c’è da farci troppo conto. Ancora, il metallo sotto le dita e quelle ghiere da metterci la forza delle dita e l’odore delle foto. E io a spiegare la vita di coppia che conducono con studiata abitudine il tempo e il diaframma e la luce e lo specchio e il fiato tenuto fermo sull’attimo che è solo tuo e di Fresnel, che qua si parla di mettere a fuoco usando ancora l’acciarino mentre tutto attorno brucia di codici binari. E poi l’esposizione. Dentro il mirino di quella macchina c’è una potente lezione di sintesi per quelle di oggi oberate da dati e display interni e esterni. Nel mio ferro sempre lucente non ci sono molti dati ma un ausilio elettronico lo dobbiamo confessare. Una batteria regala vita a una sorta di semaforino a tre segni. C’è un più per il sovraesposto, un meno per il sottoesposto e uno zero, per la giusta esposizione. Avevo anche smesso di guardarli col tempo quei segni, che l’esposimetro era una cosa che ti portavi un po’ negli occhi a forza di misurare la luce e ancora oggi mi diverto a indovinare il sessantesimo sulle luci medie, rimanendo seduto al tavolino del bar e senza scattare mai. Quella macchina mi ha insegnato a salire la scala dei grigi e a dare un tono alle cose. E ne parlavamo seduti per terra io e Dani e eravamo compresi in quella complice condivisione e gliel’ho detto “ora dentro l’esposimetro non funziona perché quando quindici anni fa almeno, l’ho riposta, ho tolto le pile". Lui però guarda dentro e grida “Funziona ancora” e io penso che la suggestione a quattordici anni è cosa potente. Ma lui insiste e mi dice di guardare e quel cazzo di esposimetro pare riconoscermi alla pupilla e s’accende sul serio. Dopo tutto quel tempo. E io, che per una vita mi sono detto che quella macchina era immortale ma certo l’esposimetro e la sua pila sarebbero scaduti come il latte fuori dal frigo, ora faccio i conti con qualcosa che non avevo immaginato. Era rimasta lì ad aspettarmi. Dentro una borsa di pelle, affogata da una scorta mostruosa di rulli Tmax 6x6 che non userò mai più. Ora è qui sulla scrivania. Alla luce che è la mia luce. Com’è giusto che sia. Dentro le penne mie ci sono tutte le parole, dentro quella macchina fotografica tutto quello che ho visto e vedrò, per gli altri può non essere nulla ma per me e per Dani è una bella certezza e ora tocca a lui trovarsi una compagna di racconti.






martedì 8 luglio 2014

TRAIN DE VUE


Scontri in piazza De Ferrari, Genova, giugno 1960





Ieri era il 7 luglio. Ero in treno di ritorno da Bologna. Roba di lavoro. Ero sul Frecciarossa prima classe, il biglietto me l’hanno fatto e consegnato via mail ed è come viaggiare su una sede operativa della NASA, con tutti che si spalmano sul tavolino computeri smartofoni e tabletti in numero vario e sempre attivi e passano da una videata a un clic e parlano a voce alta dando ordini a qualcuno che forse viaggia in un altro vagone di quell’azienda vivace che si materializza tutti i giorni sui treni che sfrecciano per la pianura padana. Il 7 luglio dicevamo. Al ritorno, viaggiavo nel primo pomeriggio e ho evitato che m'afferrasse la stessa scena di pulsante euforia lavorativa, a cui oppongo albi di Zagor e quaderni scritti con la stilo e non per luddismo ma solo per acquisita pratica dell’andare, fosse anche in prima classe. Il viaggiatore viaggia leggero.  E ieri era il 7 luglio. Il vagone del ritorno era quasi vuoto e non c’era quel pulsare d’elettronica e di concitato procedere in punta di cravatta della mattina. Non c’era quel fare annoiato di quelli che chiedevano un succo di qualcosa e lo snack. Come lo vuole lo snack? Dolce o salato lo snack? Taralluccio o biscottiello? Che cazzo mi rappresenta lo snack? Sono salito sul treno a digiuno per rispetto al ricordo del pranzo del giorno prima a base di pappardelle e cinghiale, che mi verrebbe da dire “come non ci fosse un domani” ma quelli che scrivono così sono gli stessi che scrivevano “mitico” o “beato come un limone tra le cozze” e allora volo basso e mi tengo sul mio. Insomma salgo sul treno e vicino a me si siede un collega, che normalmente, nella vita reale dico mica in questo Bladerunner con cui mi misuro tutti i giorni, non ci avrei diviso nemmeno il palo dove piscio il cane. Attacca a farmi tutto uno spiego sui costi e la razionalizzazione e, non ci posso credere, prende un tablet e mi fa vedere delle slide. Faccio cose che stanno ficcate nelle pagine dei libri io di mestiere, nello stesso luogo dove lui si occupa della logistica, un posto che siamo la metà di mille e non ci conosciamo mai. Lui è entusiasta. Non gliene frega nulla dei miei silenzi e del mio guardare fuori dal finestrino. Ha imparato ‘sta lezioncina del contenimento costi e la vuole raccontare a me, che a livello di risparmio sto messo che il mio porcello salvadanaio va dallo psicanalista perché non trova una ragione per esistere. Questo qui si occupa della carta igienica e della pausa caffè e dice che vuole temporizzare i cessi e roba così. Il presente appartiene ai bidelli che per insegnare non c’è più nessuno buono. E intanto è il 7 luglio. Ci penso e mi ricordo i morti di Reggio Emilia. Senza retorica. Forse solo per non ascoltare quest’altro che fa scorrere diagrammi di ottimizzazione del nulla. A giugno a Genova, per i carrugi e in piazza De Ferrari scoppiò l’inferno. Mi ricordo quella stagione lì mentre l’altro perde la connessione e si incazza con un cavetto del tablet e non sa dei morti di Reggio Emilia anche se sul suo profilo in rete si è scritto che è appassionato di storia e nello specifico della seconda guerra punica. Che cazzo vuol dire essere appassionato di seconda querra punica. Come se dicessi che sono appassionato del congresso di Vienna. Ma è tutto così, dentro ‘sti vagoni, in barba al paese immobile e asfittico che scorre fuori dal finestrino, ci sono questi qui che giocano a questa pirandelliana farsa per maschere e si compiacciono delle reciproche esistenze, che solo tra loro possono giustificare. In giugno a Genova, altre estati misurerà sul passo tragico quella città ma ora penso al 1960, la gente scende in piazza. Muoiono persone in quei giorni in giro per l'Italia, l’apparato repressivo del ventennio è in piena efficienza e non c’è stata nemmeno l’intenzione di cambiarlo a guerra finita. I fascisti hanno scelto, al culmine di quella tensione che rimbalza dalle terre occupate alle piazze operaie e lascia morti in terra, di fare il loro congresso a Genova. Quella città lì è medaglia d’oro per la resistenza, per farci un’idea e mica per vanto che non vuol dire nulla che anche mio nonno era medaglia d’oro e guarda tu se gli è servito a scampare un’esistenza e una morte in mare cercando di riportare ogni giorno un piatto caldo ai figli. Però quella del 1960, altro che larghe intese e pupazzielli fiorentini, suonava come una vera sfida e era acido sulla faccia di quella gente che ancora sentiva l’odore della guerra sui muri delle case e nelle dispense. Insomma scendono in strada e tirano in piedi un casino che togliti. Quando a metà degli anni Novanta stavo curando il mio libro sul Boom economico sono andato a Genova e i camalli mi hanno dato le immagini e questa storia l’ho raccontata con attenzione in quelle pagine e mi ricordo che c’era questa foto di un camallo, famoso per la forza fisica, che sollevava da solo in piena piazza la camionetta carica di celerini e la ribaltava. Me la ricordo anche se in realtà proprio quella scena non l’ho vista in fotografia ma mi è stata raccontata in lunghe sere genovesi davanti a un bicchiere e alla fine potevo giurare, in barba alla nozione scientifica che dovrei portarmi dentro di fonte e documento, che quella foto esisteva e basta. Addirittura sapevo il nome del camallo, o meglio sapevo come lo chiamavano all’epoca e senza averlo conosciuto lo sentivo come una figura familiare. Scherzi della condivisione della memoria. E intanto il treno entrava in stazione e dai fatti di Genova ai giorni che arriveranno e ai morti lasciati sul selciato di Reggio Emilia il passo è breve e volevo ancora ricordare ma già il mio collega s’affrettava a rimettere a posto la sua strategia migliorativa del respiro del lavoratore tutta ficcata nel tablet e io facendo due conti mi sono detto che dai fatti di Genova sono passati abbondanti più di dieci anni per arrivare allo statuto dei lavoratori che sancisse orari, malattie, ferie, maternità e altri diritti spiccioli. C'era morta della gente su quelle firme lì ma mica vorrai stare a diventar matto. Il mio collega non ne conserva memoria di quei giorni e nemmeno dello statuto pare ma credo sappia molto della seconda guerra punica e il suo diploma in ragioneria lo mette, lo dice la parola stessa, già dalla parte della ragione ed è già buono da spendersi per spiegarmi il piano tariffario formidabile del suo smartofonino. Non è poco dico io, di questi tempi non è proprio poco. E alle mie spalle sento partire una freccia rossa ma non mi faccio più illusioni da un pezzo e vado verso il bar che ho bisogno di bere qualcosa, che ho la memoria secca.


Scontri in piazza De Ferrari, Genova, giugno 1960









mercoledì 5 marzo 2014

Social Photo







 Giorgio Olmoti, In ascensore, Torino, 2014



Ci sono persone che stanno attaccate al computer per ore alla ricerca di biglietti aerei a bassissimo costo e quando trovano un’ andata e ritorno per Oslo a sedici euro, arrivi la mattina riparti il pomeriggio, comprano e sentono di essere parte di una razza eletta dalla furbizia spiccata che gioverà all’evoluzione dell’umanità intera, migliorandola geneticamente. Poi li ritrovi in bilico nei dehors, ficcati nel cuore pulsante dell’apericena, che raccontano di com’è buono il Camogli o il Fattoria, che però da loro a Oslo, si sentono un po’ parte di quel popolo lì adesso, si chiamano come un comodino dell’Ikea. In realtà non sono atterrati proprio all’aeroporto della capitale norvegese, non giurarci che sappiano dove si trovi sul mappamondo quel posto, ma a quattro ore di motoslitta dalla città e restano in giro per lo scalo provando un brivido a fior di pelle mentre pisciano con le narici saturate dall’afrore di quei cessi lì del grande Nord. Gli tornerà buono per quando racconteranno, in un equilibrio prodigioso tra le parole rubate ai pieghevoli di Viaggidelventaglio e il dondolio ipnotico dei cubetti di ghiaccio nel mojito, che i bagni da loro a Oslo sono così puliti che ti viene voglia di viverci e di mangiarci il salmone e se pensi che il salmone che mangiate voi sia quello vero allora non hai vissuto davvero. I biglietti li comprano mesi prima della partenza o approfittano del colpo apoplettico che ha colto un’anziana ottuagenaria di Oslo, che era andata a trovare la sorella che vive a Garbagnate perché ha sposato un pizzaiolo di origini calabresi durante una vacanza studio negli anni Sessanta. Si vanno a sedere al posto della poverina che non è più partita e fossi la scientifica sospetterei l’avvelenamento. Ce ne sono alcuni di questi qui che girano per l’aeroporto guardando gli anziani, pronti ad approfittare del mancamento e dell’embolo da cappuccino bollente per afferrare i documenti di imbarco e chiedere di poter scendere in pista in sostituzione del titolare infortunato. 

Per quello che mi riguarda un viaggio ha senso se quando riparti qualcuno si ricorderà di te, lascerai qualcosa portandoti via la tua legittima borsata di ricordi e emozioni. Ma ai viaggiatori lampo gliene importa poco di lasciare un segno minimo, di scambiare, di conoscere e raccontare. Questa pratica del viaggio mordi e fuggi è un esercizio estenuante di costruzione di memorie domestiche pesate sulla capienza di schede e sulla nozione del giga, unità di misura con cui abbiamo la stessa disinvoltura che un tempo riservavamo all’etto di prosciutto e al litro di latte. Telefonini, tablet, computer, fotocamere indistruttibili che sono state progettate per resistere al fallout nucleare e che vengono fissate con opportune armature alla tracolla del bagaglio a mano, tutto concorre alla realizzazione del grande racconto per immagini. Il viaggio è sempre stato uno dei momenti fondanti dell’archivio domestico. La fotografia e la cartolina non sono l’opportunità che dai a chi resta a casa di conoscere e scoprire ma sono piuttosto strumento di rivalsa e un esercizio mostruoso di potere. Lo sanno bene quelli che al ritorno ti costringono a fissare per ore gallerie di immagini che sono solo fisicamente più lievi dei tragici albi di fotografie che ti venivano piazzati sulle gambe al ritorno dai viaggi di nozze e che, pesanti come putrelle, ti inchiodavano al tuo destino e al divano dei gentili ospiti. Gli albi fotografici sono stati agenti di storia e a loro si deve la vittoria al referendum dei favorevoli al divorzio nel 1974, nessuno me lo toglie dalla testa. Nell’era dei social network e della condivisione a oltranza, il lasso temporale, che correva tra la realizzazione di un’immagine da archivio domestico e il passaggio alla memoria condivisa e a ambiti di più ampio accesso, si è ridotto a zero. Un tempo si richiedeva alle nostre pose di essere plausibili per lo zio lontano e per i colleghi di papà e questo giustificava agghiaccianti scatti da piccino tutto nudo sulla coperta trapuntata del lettone dei genitori, con il flash che dona un’atmosfera irreale alla location, dando l’impressione che vivevamo tutti nei Sassi di Matera e regalando alle tue pupille bambine un bagliore rosso diabolico. Anche io, che già da piccolo ero brutto come un cane bagnato, mi sono ritrovato a celebrare il rito della memoria domestica e ho un’agghiacciante galleria di immagini vestito in guisa di zorro o ussaro, che poi era zorro con il colbacco di mia cugina, e ancora nudo sulla coperta mentre gioco con un ammasso di acari agghiacciante che si diceva fosse il mio pupazzetto preferito. Falle ora ‘ste foto di bimbo nudo, perché eravamo nudi un bravo antropologo ve lo potrebbe pure spiegare e a dire il vero anche io ma non è questo il punto, e ti piomba in casa la SWAT. La serie di immagini continua e cresce in parallelo alla vita di ognuno secondo le sue possibilità o secondo le possibilità dello zio, ce n’è uno per ogni famiglia, fissato con le fotografie, offrendo il suo contributo narrativo ai riti di passaggio del nostro tempo. La foto della nascita, il primo giorno di scuola con quel bell’entusiasmo che ci può avere uno che percorre il miglio verde sapendo che non sempre si parte per vedersi ritornare, la foto di classe, le vacanze, il matrimonio, la morte tutta concentrata in  quel formidabile compendio d’esistenza che affidiamo alla fotoceramica, punto narrativo centrale della nostra lapide. Poi a distanza di tempo tutte quelle immagini diventano il racconto corale dell’epoca e si scopre che le modalità di rappresentazioni erano rigidamente chiuse in schemi fissi e ripetuti. Come succede oggi sui social network. Con la differenza che adesso domestico e pubblico consumano la loro portata semantica in sincrono. La foto del nonno partigiano o repubblichino è motore emotivo importante e ci ricorda quanto era simpatico o quanto era stronzo il parente ma allo stesso tempo racconta oltre i confini del tinello di casa i giorni della guerra, i meccanismi inclusivi e esclusivi, le modalità di rappresentazione e il grado di consapevolezza, in chi si faceva ritrarre, di attivare racconto e documento. Al presente le foto caricate sui social network offrono la possibilità ad ampie fasce di utenza di costruire una propria immagine mediatica, qualcosa che più che rispondere al reale, ricordiamolo che tutte le foto, tutti i racconti mai sono portatori sani di verità e vanno sempre interrogati, risponda all’immagine ideale che vorremo offrire di noi. Il balletto in punta di plausibilità si gioca tutto sul filo di ostentate e fragilissime autoironie e soprattutto su modalità narrative che, come per gli archivi domestici, hanno dei rigidi modelli di riferimento. Abbiamo così le spregiudicate foto della spiaggia con i piedi e le cosce di chi scatta in primo piano, foto di bella seduzione in cui il protagonista, al pari di Senofonte quando descrive se stesso parlando in terza persona nell’Anabasi, ne esce sempre un po’ eroe un po’ sognatore. A guardarlo con bella distanza fa solo la figura del coglione ma la bella distanza è già un accessorio costoso in questa stagione dell’ hic et nunc, che trova massima espressione nelle selfie, quella pratica dell'autorappresentazione che ci spinge a autofotografarci tenendo il cellulare alla distanza massima consentita dal nostro medesimo braccio o agevolati dalla complicità di uno specchio e dalla magia di un fondale composto dalle coinvolgenti mattonelle di un cesso. E la proposta narrativa scolpita nei pixel ci regala belle suggestioni quando il racconto si sposta sui luoghi della propria quotidianità che vengono fortemente personalizzati dalla presenza di incredibili protagonisti esotici come i gatti, è loro il primato assoluto, cani e fidanzati/e. Ci sono poi le prove di ardimento, qui la tecnica fotografica la gioca da indiscussa padrona fermando i nostri eroi mentre stanno per sedersi nei fondali bassissimi e cristallini di un qualche mare da villaggio vacanze, ancora seduzione tagliata a fetta spessa, o ingaggiano duelli a palle di neve o, peggio di tutti, sfidano il tramonto lasciandoselo alle spalle e guardando in macchina con l’aria d’aver capito il senso ultimo dell’esistere. Una danza, una cosa tribale con bella esposizione di carni tremule e invoglianti, con occhi che rapiscono e piedi che ammiccano da spiagge assolate di torbidi tropici. Un antropologo ci sguazzerebbe e c’è pure il rito del banchetto, con la gente che s’ammazza a fotografare le pietanze che ordina al ristorante attivando con il social network un gesto che sublima la condivisione rituale del cibo. E allora torniamo ai viaggi, all’andare, alla conoscenza che è cardine ultimo del nostro respiro, la ragione prima di tutto il narrare. Mi piace notare che il viaggio ha ancora salde radici nella rappresentazione tradizionale di ambito domestico che era in voga ai tempi delle pellicole e degli album. Sei davanti al Colosseo e hai due possibilità narrative con la tua macchinetta fotografica. Puoi fotografarti in maniera che ti si distingua, che si possa notare l’abbietta tua propensione alla pratica turistica più becera, ben sottolineata da marsupi, borselli segreti per i soldi cuciti direttamente alla pelle dell’inguine, bermudoni e sandali con la suola anticalamità, cappelli di paglia che nella vita normale non avevi mai preso in considerazione, piantine della città infilate nel porta piantine in cordura fissato con il velcro al portaportapiantine fissato con il velcro al dorso della mano sinistra, borracce come fossi nel Sahara e invece sei in un posto pieno di fontanelle, bar e pozzanghere, e ovviamente tutto il tuo armamentario digitale. Ti porti a pochi metri dal Colosseo, gli dai le spalle e sorridi a quell’altro disgraziato che sceglierà se farti vedere bene bene, sperando che chi guarderà poi si fidi che quelle tre pietre in ombra alle tue spalle sono il Colosseo, o andandoci giù pesante di grandangolo, comprendendo parte significativa del monumento romano nell’inquadratura ma sperando a quel punto che chi guarda saprà credere che quella macchiolina atrocemente variopinta che si vede sotto l’arcata sei tu. In ogni caso la narrazione risulterà monca dei suoi contenuti significativi e dovrà giocarsela sulla fiducia dei condivisori. Succedeva anche un tempo con le foto tradizionali. Sta lì la cifra che distingue il fotografo narratore da quello che accrocca appunti fotografici. Ma vanno bene questo e quello. Resta il fatto però, che come si diceva in apertura, il viaggio prende bella consistenza quando riparti lasciando memoria di te e per quanto ci si sforzi resta difficile immaginare che i figuranti che hai pagato perché si facessero fotografare davanti al Colosseo con te, vestiti da centurioni, si ricordino della faccia tua oltre lo spazio temporale che passa dal loro sorriso ai tuoi soldi ma è la dura legge dell’illusione d’essere andati davvero da qualche parte. A quel punto resta la consolazione dei “mi piace” che raccoglierete sotto le vostre foto e che sono merce di scambio per quelli che dovrete mettere sotto le foto dei vostri amici, che forse il vero nodo del problema sta tutto in questa nozione nuova dell’amico. Ognuno chiede all’altro non per informarsi davvero ma per dichiarare piuttosto quello che già conosce e i nostri gesti sono i salti dei Watussi e valgono certo per la nozione d’umanità che ci portiamo d’obbligo addosso.





venerdì 18 ottobre 2013

Memoria domestica



Federico Patellani, Marinai e fotografo ambulante, Napoli, 1950 ca.
   Dalla rete, Fotografo ambulante con stampante digitale al seguito


Mentre Macondo celebrava la riconquista dei ricordi, José Arcadio Buendía e Melquíades scossero la polvere dalla loro vecchia amicizia. Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio. Era stato nella morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la solitudine. Ripudiato dalla sua tribù, privato di ogni facoltà soprannaturale come castigo per la sua fedeltà alla vita, decise di rifugiarsi in quell’angolo del mondo non ancora scoperto dalla morte, e di dedicarsi alla gestione di un laboratorio di dagherrotipia. José Arcadio Buendía non aveva mai sentito parlare di quella invenzione. Ma quando vide se stesso e tutta la propria famiglia effigiati in una età eterna su una lastra di metallo laccamuffa, ammutolì dallo stupore. Da quella epoca datava l’ossidato dagherrotipo su cui appariva José Arcadio Buendía coi capelli irti e brizzolati, col colletto duro della camicia allacciato con un bottone di rame, e una espressione di solennità sbigottita, e che Ursula descriveva scoppiando a ridere come “un generale spaventato”. In effetti, in quella diafana mattinata di dicembre in cui gli fecero il dagherrotipo José Arcadio Buendía era spaventato, perché pensava che la gente si andava sciupando a poco a poco intanto che la sua immagine passava sulle lamine metalliche. Per una curiosa inversione dell’abitudine, fu Ursula che gli tirò fuori quella idea dalla testa, e fu sempre lei a dimenticare i suoi vecchi crucci e a decidere che Melquíades sarebbe rimasto a vivere in casa, anche se non permise mai che le facessero un dagherrotipo perché (secondo le sue stesse testuali parole) non voleva servire da burla ai suoi nipoti. Quella mattina vestì i bambini coi loro migliori vestiti, li incipriò e diede una cucchiaiata di sciroppo di midollo a ognuno di loro perché potessero rimanere assolutamente immobili per quasi due minuti davanti alla pomposa macchina di Melquíades. Nel dagherrotipo familiare, l’unico che ci fu mai, Aureliano apparve vestito di velluto nero, tra Amaranta e Rebeca. Aveva Io stesso languore e lo stesso sguardo chiaroveggente che avrebbe avuto diversi anni dopo davanti al plotone di esecuzione.

(tratto da Cent’anni di Solitudine di Gabriel Garcia Marquez)




Per secoli la possibilità di farsi ritrarre, di lasciare una testimonianza iconografica per raccontare ai discendenti e al futuro il proprio volto e le proprie passioni fu appannaggio della fasce sociali più abbienti. Toccava averci il tempo di restare in posa, giorni e giorni spesi in un’immobilità che favorisse la tela del ritrattista, toccava averci anche le possibilità economiche per permettersi di pagare la mano dell’artista. I più ricchi si facevano fare ritratti numerosi e la nobiltà s’abituava già in tenera età al tedio della posa.  A partire dall’Ottocento e più compiutamente nella seconda metà di quel secolo la possibilità di farsi ritrarre, grazie alle tecniche fotografiche che, in un processo di affinamento e di scoperta sempre attivo a partire dalle prime esperienze pionieristiche e fino ai nostri giorni digitali, permettevano la realizzazione di ritratti con un significativo abbattimento dei costi e dei tempi rispetto alla tradizionale arte pittorica. La fotografia divenne l’asse portante delle memorie domestiche ma almeno fino all’avvento del 35 millimetri e della produzione su scala industriale di apparecchi fotografici che contribuì, nella seconda metà del Novecento, alla costruzione capillare di un archivio della società di massa, farsi ritrarre era ancora un evento, un’occasione spesso unica, per moltissime persone. Le foto di interni nei Sassi materani scattate da Franco Pinna, accompagnando le spedizioni verso il meridione dell’antropologo Ernesto De Martino negli anni Cinquanta, ci mostrano realtà domestiche segnate da una marcata indigenza ma sulle pareti contese alla roccia di quelle abitazioni possiamo vedere a volte la foto di un uomo in divisa, forse un figlio o un nipote morto in guerra, la foto di un anziano parente, di cui in presagio di morte s’era voluta serbare memoria sacrificando sudate finanze a beneficio dei fotografi ambulanti che battevano le provincie anche sperdute per dare a tutti un occasione fotografica. Come a Macondo la fotografia arrivava nelle piazze con quella sua magia replicata sempre a fiato sospeso, testimonianza inequivocabile di una modernità che cominciava a non dare tregua. Presto si andò definendo una grammatica del rappresentato. I “riti di passaggio”, si perdoni l’uso improprio in questo contesto di una definizione utilizzata soprattutto per la sua valenza evocativa. La nascita, la scuola, la leva, il matrimonio, il viaggio, la morte sono i luoghi deputati per la costruzione narrativa dell’archivio domestico. Staimo parlando degli inizi del secolo e spesso il lasso temporale che correva tra la possibilità testimoniale offerta da una nascita e l’eventualità di una morte immediatamente successiva era alto. Se si visitano i vecchi cimiteri sperduti nelle campagne italiane si possono notare piccole croci in aree delimitate in cui vecchie indicazioni recitano “bambini”. Senza nome, solo piccole croci. Ma ormai la consuetudine della rappresentazione fotografica di ambito domestica, in onore alla costruzione di una memoria condivisa fatta di archetipi narrativi fissati e d’obbligo, pretendeva il suo tributo. I bambini venivano dunque fotografati già defunti, in un processo di sintesi estremo che passava oltre il tabù della vista del morto. Mi capita spesso di infilarmi nei vecchi cimiteri per guardare le foto sulle tombe, senza una particolare attitudine necrofila ma solo per sfogliare l'album di quella comunità scoprendo modalità univeralmente accolte di rappresentazione e differenze. Lo trovo più divertente dell'obbligo a cui ci sottopongono gli amici novelli sposi quando, al ritorno dal viaggio di nozze, ci inchiodano al divano letteralmente, sotto il peso imbarazzante e maledettamente fisico della loro memoria fotografica rilegata in marocchino rosso e ordinata in album concepiti per stare sulla memoria come una pietra tombale inviolabile e inconsultabile. Allo storico della fotografia l'onere di farsi carico di sfogliare un giorno anche quelle pesanti pagine di cartoncino foderato di velina, in barba alle schede da mille giga che pure ormai sono d'uso diffuso.


Giorgio Olmoti, cimitero di Crespi d'Adda (BG), 2012