sabato 25 luglio 2015

i Lazzaroni vanno alla guerra





Tutto comincia da una foto. La guerra è quella d'Etiopia. In uno scontro tra le truppe coloniali italiane e i resistenti etiopi viene ucciso il deggiac Hailù Chebbedè, uno dei capi della guerriglia nei territori del Goggiam. Le foto, perchè ne conosciamo un'intera lunga sequenza, sono state scattate da Angelo Dolfo, un professionista al seguito delle truppe italiane, oggi si direbbe embedded. La testa del deggiac, ucciso in uno scontro il 24 settembre 1937, fu messa in una scatola di latta originariamente destinata a contenere biscotti Lazzaroni e portata in giro tra i villaggi e infine esposta su una forca al mercato di Quoram per ordine, parlano le carte d'archivio, dello stesso vicerè d'Etiopia, Rodolfo Graziani. La sequenza mostra la scatola che viene aperta tra i ghigni dei soldati italiani, si legge bene la scritta "Lazzaroni" sulla latta, e poi ancora la testa sospesa a una forca con dei giri di filo di ferro a cingerla in un ultimo oltraggio.

I biscotti Lazzaroni erano quelli nelle scatole di latta gialla che trovavo a casa delle zie. Nei salotti bui e gozzaniani dell'estate al sud le voci parlavano basse, che tutto poteva chiamare il caldo che fuori ammazzava le strade e ogni tanto da certi sportelli segreti venivano tirate fuori quelle scatole che contenevano una dovizia di pasticceria da pomeriggio, da thè, da salotto della zia. E sceglievo sempre quello con la ciliegia candita o quell'altro con la cioccolata a coprirne metà che se lo trattenevi per più di una frazione di secondo tra le dita ti marcava le impronte e denunciava le tue preferenze in materia di biscotti.
Le scatole di biscotti erano anche comode per tenerci i soldatini e tornavano buone anche per farci delle trincee di fortuna per quell'esercito di plastica dalle fusioni approssimative, brutta copia di quegli altri costosi che facevamo bella mostra sugli scaffali del negozio. Erano una risorsa infinita quelle scatole di latta, potevi suonarci sopra i tamburi come nei film di Tarzan e io ci tenevo le rane che prendevo negli stagni in campagna.

Il mio mestiere passa dalla lettura della storia attraverso le immagini e ho lo stomaco del medico legale al tavolo settorio e difficilmente mi ritraggo. Quando però ho visto la scatola dei biscotti Lazzaroni usata per portare in giro l'orrore m'è sembrato un oltraggio alla mia più intima memoria domestica e ho avuto un sobbalzo. Del resto uno degli orrori più potenti della guerra è che non conosce la dimensione intima, domestica, piomba su tutto e tutto dilania assetata di morte e morte e morte. E allora ho provato a raccontare una storia a mia volta immaginando il nemico, un generico nemico di una guerra che all'inizio non è collocata nelle coordinate di spazio e di tempo di pertinenza ma piuttosto rimane in un limbo che è la terra di nessuno del dolore che tutte le guerre portano. Un nemico solo sussurrato che a un certo punto diventa carne e urla e morte. Quel racconto nelle mani di Loris Vescovo ha preso il passo di una storia da portare sui palchi dei teatri. Colonie è una storia in cui i nemici si confondono con le vittime e ci sono italiani e tedeschi e etiopi e russi e la guerra che è sempre la guerra maledetta, perchè non c'è la guerra buuona e quella cattiva.





Da piccole mia nonna ci ha insegnato a distinguere il bene dal male attraverso i suoi racconti, che erano un intreccio fitto di parole a fil di voce, con le sue dita mosse nell’aria come mantidi tese ad afferrare la nostra attenzione. Il bene era tutto concentrato nelle storie di solidarietà, di lealtà, di generosità, di dignità, tutte parole con un accento che scoppia in fondo per dare clamore a quello che devono evocare. Il male era una massa densa e scura di gesti che andavano dal sorriso negato alla morte inferta. Ci voleva poco a capire che il marcatore del male, una sorta di prova del nove quando ti afferrava qualche dubbio etico, passava tutto dal dolore degli altri che avrebbe potuto essere anche il tuo dolore.



Uccidere, assassinare, strappare alla vita, colpire, tagliare, smembrare. Il delitto orrendo, quello maledetto di cui non ci si deve macchiare mai. Assolutamente. Questa idea ce la portavamo dentro piantata a cuneo, qualcuno canterebbe, tra l’aorta e l’intenzione.  Sembrava una certezza incancellabile. Fino a quando s’è cominciato a parlare del nemico. All’inizio erano vaghe allusioni, più un dirselo per bisbigli, guardandosi attorno per vedere se ad ascoltare c’erano i più piccoli. In ragione del fatto che i bambini non sanno dominare la paura. Così si diceva tra adulti. Nei giorni successivi però il nemico s’è imposto nei nostri gesti quotidiani come una presenza carica di angoscia ma sempre con quel sospeso che non sai afferrare. Dentro, in fondo alla pancia, dove va a frugare la bestia fottuta della paura, scattava un meccanismo di difesa piuttosto elementare che ti sussurrava “vedrai che non è vero”.




Un giorno vidi il cane dei vicini precipitarsi su un uccellino, un nidiaceo caduto dal tetto e rimasto sul piazzale stordito e incapace d’essere volo. Il cane lo afferrò e in quel morso e in quello scuotimento c’era già il senso di una fine ineluttabile. Eppure corsi a vedere, negando l’evidenza di quella violenza, sperando di non trovare quella morte che già sapevo. Già… sperando. Sempre per quella difesa minima che possiamo permetterci quando è già difficile darci definizione plausibile del male.




All’inizio il nemico aveva forma di nebbia nei nostri racconti. Mai concreto, era da subito maledettamente cattivo, maledettamente efficiente nella sua pratica dolorosa e nell’altra valle dice che li hanno portati sulla riva del torrente e poi uccisi lasciando i corpi ad avvelenare l’acqua. Ma prima hanno bruciato, violentato, mutilato, deriso, rubato. A ogni nuovo racconto della stessa storia s’aggiungeva un particolare ennesimo, qualcosa che fino a quel momento non s’era riusciti neppure a immaginare. A riprova che anche con la fantasia il nemico ci superava. Una fantasia esercitata con la morte assegnata d’ufficio, ancora, una fantasia che noi non sapevamo eccitare nei nostri pensieri. Perché, ve l’ho già detto, l’assassinio era per noi il peggiore di tutti i peccati.





Ora sono mesi che questa guerra continua e non servono più i racconti, perché il fumo che si alza nero dagli altri villaggi lo sappiamo vedere anche senza indicarcelo con il dito puntato. Del resto tutti i racconti hanno perso la foga dei primi tempi. Ora quello che c’è da sapere lo leggiamo sulla faccia dei nostri che tornano. Le ferite sono sangue vero che azzera tutti i bastioni difensivi dietro cui abbiamo asserragliato i nostri pensieri. La realtà non lascia nessuno scampo ai dubbi. Non c’è più “sarà vero?”, sostituito da un lacerante “vorrei non lo fosse”. A darci conferma che anche da adulti dominare la paura è un bell’azzardo. E uccidere non è più una colpa incancellabile e la nostra regola più rigida si piega ogni giorno alla convinzione che monta dentro gli uomini del nostro villaggio. Uccidere non è più una colpa maledetta e basta, adesso è chiaro che la misura della colpa sta tutta nel colore del sangue che ora, mentre torni al villaggio, t'ha sporcato le mani. Ci sono i morti giusti e quelli sbagliati. Ci sono i morti. Quest'evidenza lacerante ci ha rubato i giorni e il respiro del sonno. Abbiamo paura di morire e paura della maledizione che i nostri uomini si portano addosso con il sangue dei nemici. Ci hanno fatto a pezzi. Ci hanno sbranato la libertà di non voler ricevere e dare dolore. La libertà appunto.





Poi i nostri uomini sono spariti. Non sono più tornati al villaggio. Al tramonto partivano e tornavano a giorno fatto. Restavano lì, buttati in un angolo a dormire con un respiro di cui avevamo paura di riconoscere l’alito. Le armi in piedi, appoggiate alle pareti, e i più piccoli che le spiavano in bilico sul divieto assoluto di toccarle, di pensarle, di sfiorarle. Gli uomini di giorno parlavano solo tra loro, a bassa voce. Mangiavano quel poco che si riuscivano a procurare le donne e poi dormivano. La nonna ci diceva di non fare rumore per non svegliarli ma noi avevamo visto mille volte i nostri padri, gli zii, i fratelli, i cugini e i vicini di casa buttati lì per terra con gli occhi sbarrati nel vuoto. Lo sapevamo che quello non si poteva chiamare sonno. E poi erano partenze e ancora ritorni. Quando li vedevano risalire verso il villaggio le donne da lontano tenevano il conto e cercavano di leggere nel passo pesante di quell’ultimo tratto di sentiero l’esito di quella notte ancora maledetta. I feriti già da lontano venivano valutati ma erano tornati e già era qualcosa. Poi c’erano quelli che non ricomparivano sulla strada del ritorno e vecchi e donne che piangevano di un lamento silenzioso, chè tutto ormai andava misurato sulla paura d’essere solo intuiti in quel lembo di terra che pensavamo nostro da sempre. Poi gli uomini, tutti gli uomini, hanno smesso di tornare e qualche donna ha preso le armi rimaste ancora al villaggio ed è stata inghiottita dall’orrore oltre la collina. E il fumo c’era sempre ma ora ne sentivamo anche l’odore.







Sono arrivati al villaggio la prima volta. Sono scesi dai camion e gridavano. Polvere sollevata e le poche bestie che correvano terrorizzate e bambini che piangevano. Tutti correvano senza sapere dove. Il prezioso contenuto delle pentole magre restava abbandonato al fuoco o rovesciato in terra e nemmeno i cani a lappare. Gridavano quegli uomini, coperti di panni tutti uguali e armi, molte più armi di quante ne avessimo mai solo sospettate oltre la collina. Non capivamo ma c’erano altri uomini, vestiti come i nostri, con la faccia e le mani come quelle dei nostri che non erano tornati ma non era un buon motivo per dimenticare. E poi c’erano quegli altri, come e peggio di tutti i racconti. Ce li avevamo davanti. Esistevano sul serio se esistevano quelle grida e la polvere e i bambini che piangevano. Erano pochi e davano ordini a quegli altri, gente come noi ma qualcosa ci diceva di non fidarci. Ci hanno radunati e qualcuno ha parlato nella nostra lingua. Volevano sapere dov’erano gli uomini, volevano che s’ammucchiassero le nostre provviste sui loro camion. Poi sono arrivati due di quegli uomini cattivi con la pelle chiara. Trascinavano mio zio. Era vecchio mio zio.  L’hanno portato al centro dello spiazzo e hanno iniziato con le botte e non ci potevo credere a sentire quel rumore. Non lo sospetti fino a quando non lo senti che le ossa che si rompono hanno il rumore dei rami spezzati, della legna che si spacca alla fiamma la sera. L’hanno lasciato morto lì.





 A volte non li vedevamo per settimane. A volte arrivavano e si fermavano qualche notte al villaggio. Mangiavano tra loro. Noi non esistevamo. Di giorno non esistevamo. Una sera vennero da noi mentre dormivamo con quel sonno che era stato dei nostri uomini che tornavano al villaggio. Mi trascinarono via. Mi portarono in una capanna e c’erano altre ragazze del villaggio. Ci strapparono i vestiti e nessuna gridava. Per la maledetta vergogna che nelle altre capanne capissero quello che ci stava per accadere. Sei soldati mi hanno afferrato e ridevano e puzzavano e si sono ficcati dentro di me e mi facevano male e graffiavano e mordevano e mi scavavano. Poi uno mi ha girata a pancia sotto e, con la bocca che mordeva la terra e mentre gli altri ridevano mi ha scavata ancora più forte e m’ha fatto morire le urla in gola. Ci hanno riportato all’alba alle nostre capanne. Nessuno mi ha detto nulla ma le donne sapevano. Lo sapeva anche il sangue che si raggrumava sulla tela povera di quello che restava del mio abito. E poi per altre notti, fino a farci andare da sole a testa bassa alle capanne dei soldati. A volte erano come noi, a volte erano quegli altri con la pelle chiara. Cattivi.



Un giorno è arrivata una macchina e sono scesi alcuni uomini che, a giudicare da come si muovevano gli altri, dovevano essere dei capi importanti di quelli lì, degli italiani. Già, a un certo punto avevamo iniziato a chiamarli così, senza idea di dove potesse mai essere la loro terra, la loro madre. Gli italiani erano lì e non si sapeva da dove fossero venuti. Una punizione certamente. Ci radunarono ancora e uno reggeva una scatola di latta che originariamente, ma non potevamo sospettarlo, era destinata ai biscotti. C’era scritto “Lazzaroni” su quella scatola. L’uomo che la reggeva l’aprì. Dentro c’era la testa di mio padre.


Quando arrivò, il respiro degli italiani arrivò dal cielo e si rubò il nostro di respiro. I gas, i gas, gridavano tutti e quante parole nuove avevamo imparato in fretta. Ma la fretta non bastò a nulla.  L’aria degli italiani uccise la nostra aria e al villaggio dopo non restò che fare i conti con la polvere. E una vecchia scatola di biscotti di latta incrostata di sangue.



"Colonie" sul palco del Mittelfest

 

giovedì 26 marzo 2015

WAR IN PROGRESS



Come in un film







http://www.repubblica.it/tecnologia/sicurezza/2015/03/03/news/cyberjihad_califfato_islamico-108630397/?ref=HREC1-2


Segnalo il link a un interessante articolo pubblicato su Repubblica del 3 marzo 2015 a firma di Arturo Di Corinto. Si tratta di un resoconto in cui si affronta il tema del confronto mediatico, che è uno dei fronti su cui si giocano prepotentemente le guerre della contemporaneità. Una sorta di corrispondenza di guerra, se teniamo conto del fatto che la rete è diventato un potentissimo agente di storia e che dalle sue maglie passa il reclutamento, l'analisi strategica, i flussi di denaro e le variazioni di mercato riferiti al conflitto in atto. Si prendono in considerazione le strategie degli hacker occidentali e in special modo quelli che si riconoscono nella linea ideologica di Anonymous e le strutture informatiche riferite alla Jihad islamica e all'Isis. La sintesi dell'evoluzione di questa vera e propria guerra digitale, incentrata sui criteri della propaganda attraverso i media ben noti già ai conflitti novecenteschi ma anabolizzata, nella sua possibilità impattante, dalla capillarità della veicolazione attraverso la rete, rivela fondamentalmente un dato che mette in crisi anche la definizione di guerra asimmetrica. I due fronti digitali sono sostanzialmente governati da strutture cresciute con lo stesso bagaglio tecnico e la stessa nozione della rete e della condivisione. Le distanze culturali che pure si evincono enfatizzate proprio dai materiali video che circolano ad opera delle strutture informatiche sono azzerate proprio nell'utilizzo della rete e dei sistemi di programmazione e gestione. Anche i linguaggi sono condivisi. il video del pilota giordano barbaramente trucidato chiuso in una gabbia a cui viene appiccato il fuoco è girato secondo criteri narrativi filmici cari al cinema d'azione e di avventura, i punti di ripresa sono diversi e denotano una precisa conoscenza del linguaggio filmico ma anche una profonda suggestione di certi temi epici. La musica enfatizza come nella tradizione delle colonne sonore e la stessa vittima pare caricarsi, è una mera suggestione indotta da quelle immagini sapientemente montate, di una consapevolezza attoriale che accentua drammaticamente i toni della narrazione. Il montaggio è alternato da immagini dal taglio statico, particolari degli occhi alla Sergio Leone e armi e polvere che si alza dalla sabbia arsa per aprirsi di colpo a panoramiche sullo spettrale patibolo in scena tra le rovine e sugli uomini in armi. Soldati tutti uguali nella posa, dal viso celato, spuntano tra le rovine, ancora potente suggestione filmica e hanno preso il posto di quell'esercito gaglioffo in cui ognuno vestiva i suoi panni e s'agitava senza disciplina, che era al centro dei primi video di rivendicazione. Tutto è ormai in una potente liturgia scenica. Le fiamme vengono appiccate alla gabbia e la mia descrizione non procederà oltre, partendo da una striscia di benzina che corre sul terreno e che viene innescata dalla fiaccola del carnefice. La fiamma corre sulla terra lenta generando tensione ennesima filmica. Del resto che ci sia stato un salto qualitativo nella confezione di prodotti multimediali di propaganda è ben chiaro anche nei video che celebrano la presa delle città libiche. Lunghe teorie di pick up Toyota, la marca giapponese pare agire in regime di monopolio tra le fila di questo esercito ma in realtà la supremazia di questo gruppo automobilistico è cosa nota sui mercati asiatici e africani anche a prescindere dalle forniture ai militari dell?isis, sfilano per le strade e vengono filmate anche dall'alto da droni. A guardarle sembrano delle vere e proprie pubblicità, I fuoristrada sono tutti nuovissimi e portano sulle fiancate i colori dell'Is. Ancora una volta il linguaggio ci è estremamente familiare, è il nostro. A questo punto viene da credere che in questa idea di guerra asimmetrica ci sia uno spazio di equilibrio generato dall'ipotesi che i fronti digitali non abbiano fatto nessuno sforzo per adeguarsi al linguaggio dei loro avversari ma siano piuttosto cresciuti parlando la stessa lingua, guardando gli stessi film, attivando le stesse strategie di comunicazione sui social network. Una sorta di moderna guerra di posizione. Trincerati dietro un cablaggio ad aspettare la mossa del nemico.













Come nella realtà 






"Ho letto un episodio della guerra in Iraq in cui i membri di un plotone dell'esercito USA erano stati accusati di aver stuprato una ragazza di 14 anni e di aver massacrato la sua famiglia, sparando in faccia alla vittima e dando fuoco al suo corpo. Com'era possibile che questi ragazzi si fossero spinti tanto in là? Cercando le risposte a questa domanda, ho letto blog di soldati e libri. Ho guardato i video di guerra artigianali realizzati dai militari, ho navigato nei loro siti e ho esaminato i loro post su YouTube. Era tutto a disposizione e tutto su video."
 Brian De Palma a proposito di Redacted.


Nel 2007 Brian De Palma arriva nelle sale cinematografiche con Redacted, un film ambientato in Iraq, nella città di Samara e più specificamente riferito alla quotidianità di alcuni militari statunitensi impegnati nella gestione di un checkpoint. In bilico tra improvvisi picchi di adrenalina e una noiosa routine spesa tra lunghe statiche ore di servizio e il tempo libero giocato nei limiti fisici del campo, sotto le tende e sulle brande. Al culmine della vicenda c'è una notte di follia in cui alcuni dei militari protagonisti di questo racconto corale entrano in un'abitazione violentano una ragazzina e massacrano oltre a lei tutta la famiglia.

Questa trama, che si costruisce su una tensione crescente è il pretesto per una riflessione sui media e soprattutto sul racconto attraverso le immagini. La vicenda è raccontata dal regista passando da una molteplicità di tecniche narrative, prevalentemente d'uso amatoriale. Ovviamente si tratta di finzione filmica ma il racconto si avvale della coralità testimoniale di diverse possibilità narrative offerte da tecnologie e linguaggi mutanti di cui si impossessano utenti diversi e con modalità differenti. i media coinvolti per la  costruzione di questo racconto filmico sono i blog, la televisione (sia come prodotto televisivo da realizzare che come prodotto realizzato e fruito), le videocamere amatoriali, canali in rete tipo Youtube e piattaforme di comunicazione in rete tipo Skype, siti americani e arabi, videocamere di sorveglianza a bassa definizione, registrazioni video per uso investigativo, rapporti cartacei.Questo film è una riflessione addirittura ossessiva, coerentemente con altre opere del regista, sulle immagini e sulla prevalenza nella nostra realtà del rappresentato. La vicenda nel finale precipita in una tragica spirale di follia burocratica che mette alle corde il pacchetto uso esportazione del sistema democratico ma più che sui fatti, che pure sono lo specchio tragico del reale, quello che pare più interessante è proprio l'utilizzo dei diversi media coinvolti. Addirittura uno dei soldati filma tutto perchè sogna di essere ammesso in una scuola di cinma e, a conferma dell'idea che questo racconto è la lucida visione del presente, questo narratore privilegiato della vicenda sarà lo stesso che, rapito dai guerriglieri, verrà filmato mentre viene decapitato.

L'interazione tra media diversi è la lettura efficace del presente e a scriverne già su un blog che linkerò alla mia pagina facebook e che proporrò su una piattaforma didattica ci racconta quanto sia penetrata a fondo la riflessione di Brian De Palma sul racconto del presente, forse prescindendo anche dalla qualità del presente stesso. Non è un caso dunque se alla fine del film segua una lunga galleria di foto scattate nei luoghi in cui è ambientata la vicenda riattivando quel cortocircuito dell'informazione che, in bilico su vero o falso, su quello che è ripreso dal vero e quello che racconta il vero ricostruito, è la caratteristica di questo nostro tempo in cui memoria domestica e memoria collettiva non hanno confini distinti e le tecnologie a basso costo e di facile gestione moltiplicano all'infinito i racconti e i punti di vista.


Il film può essere visto a questo link


https://www.youtube.com/watch?v=4hfYBl4MNfk