Raccolta di appunti sparsi sulla fotografia, intesa come fonte storica e, più in generale, sui criteri narrativi proposti dal linguaggio fotografico.
domenica 9 ottobre 2016
Le icone del Novecento. 1961, il muro di Berlino
E proviamo a raccontare storie e storia attraverso una fotografia iconica del Novecento. Andiamo al link qui sotto.
1961, il muro di Berlino
venerdì 27 maggio 2016
Tempo di scrivere, tempo di guardare
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Carlo Naya, Scrivano e traduttore, Napoli, 1865 |
Carlo Naya, nato a Tronzano Vercellese nel 1816 e morto nel
1882 a Venezia, lega alla città lagunare la sua fama di fotografo. In realtà
compì i suoi studi universitari a Pisa e viaggiò molto in Italia e all’estero
ma è effettivamente a Venezia che la sua attività di fotografo ebbe chiaro
compimento professionale. Normalmente dedicato al racconto della città secondo
uno schema narrativo riconducibile all’esperienza dei vedutisti, subisce il
fascino del fermento che si muove tra le vie strette della città che i suoi
magnifici scorci non sanno certo raccontare. Nella sua produzione affiorano
dunque reperti di quella che oggi chiamiamo foto sociale, racconti di marginalità,
di piccoli commerci di sussistenza. Una foto notissima, risalente al 1865 e
che, colorata, ritroviamo anche nel catalogo di Giorgio Sommer è quella dello
scrivano e traduttore di piazza. Realizzata a Napoli questa immagine è una
sintesi efficacissima del suo tempo. Siamo agli albori dell’unità d’Italia e il
meccanismo di costruzione dell’identità nazionale è ancora lungi dall’essere avviato
secondo la strategia che prevede l’attivazione di percorsi scolastici minimi
estesi a ampie fasce della popolazione, così da poter costruire una lingua
condivisa sulla babele di altre lingue e dialetti che suonano avverse al
concetto stesso di unità. Il grado di scolarizzazione in quello che fino a
pochi anni prima era il dominio borbonico era piuttosto basso e per leggere le
lettere, per scriverle alle persone care che s’erano avviate verso i flussi
migratori, toccava chiedere aiuto a persone istruite. Lo stesso valeva per la
gestione burocratica della propria vita, documenti, ingiunzioni, chiamate alla
leva, tutto quel sistema complesso che oltre la scolarzzazione puntava alla
costruzione a tappe forzate di un identità condivisa. Nei vicoli napoletani
Carlo Naya fotografa dunque questo scrivano e traduttore ambulante mentre offre
i suoi servizi professionali a una donna. Il personaggio ha un aspetto strano,
marca la sua immagine di studioso ponendo l’accento anche sui modi e l’aspetto
secondo una divertente strategia di marketing. La donna, nella posa cercata
dall’artista, guarda allo scrivano come al maestro di porta di un mondo
misterioso e irragiungibile.
Sembrano memorie di un tempo lontano.
A Torino quando il tempo è
propizio un ragazzo tunisino sposta il suo ufficio all’aperto e riceve i suoi
clienti. Permessi di soggiorno, curricula, libretti di lavoro. C’è una piccola
fila ordinata in attesa nel tardo pomeriggio e c’è un vassoietto con i biscotti
per ingannarel’ansia. Guardandolo mi sono ricordato di Carlo Naya e del mio
rifiuto di pensare “le immagini di un tempo” preferendo piuttosto pensare che
le immagini hanno tutto il tempo che vogliono. Con buona pace di quelli che non
seppero spiegarsi a suo tempo perché il mio racconto per immagini dei giorni
del boom economico passasse dai vicoli delle città percorsi dall’acquaiolo e dall’impagliatore
di fiaschi. Le fabbriche c’erano, certo che c’erano, perché i racconti valgono
tutti. Tutti appunto. E questo me lo son fatto scrivere da un signore alla fermata
del tram. Per pochi spiccioli in cambio. Tenetene il debito conto.
Giorgio Olmoti, Scrivano e traduttore, Torino, 2012 |
lunedì 23 maggio 2016
Di me e di Mario Dondero. Perchè se non si va non si vede.
Il 13 dicembre del 2015, giusto un pugno
di mesi e settimane ad arrivare a oggi, muore Mario Dondero. Scrivere “il
fotografo Mario Dondero” sembra, nel suo caso, tremendamente riduttivo e, del
resto, legarlo a tutte le disparate attività che lo hanno visto mettersi in
gioco nel corso di un’esistenza mossa sempre dalla voglia di andare e scoprire,
finisce per essere un problema serio. Mario Dondero è il respiro di una pratica
narrativa che passa dalle fotografie e dai viaggi e dalla sua voce e da i
suoi occhi che nel lampo ti restituivano l’intuizione di tutto quello che
potevano aver visto. Alla notizia della sua morte, nel corso della puntata che
settimanalmente registro per la radio da quasi trent’anni, ho parlato di lui,
l’ho raccontato per come potevo e per cosa sapevo. Quella di parlare di
fotografia alla radio è una mia vecchia abitudine e a ben vedere rischia di
essere ogni volta una sorta di suicidio mediatico, considerato che la natura
stessa dell’immagine fotografica, partendo banalmente dalla sua etimologia, si
scontra con il mezzo radiofonico, fruibile dall’orecchio ma indifferente alle
lusinghe dello sguardo. Eppure da anni parlo di fotografia alla radio e anche
grazie alla diffusione della rete posso appoggiarmi ad altri media per cercare
di aggiungere tasselli al mio racconto per immagini immaginate che parte dai
microfoni della radio.
Quella sera avrei voluto raccontare Mario
Dondero con un approccio scientifico che la pratica del mio mestiere mi offre.
Potevo restituirlo all’epica narrativa dell’umano genere da lui costruita nei
decenni. Potevo fermarmi sulla natura inclusiva del suo sguardo fotografico,
che sentiva come un delitto la perdita d’attenzione anche per le cose minime.
Sarei di certo finito a sostenere, come altri prima di me hanno fatto e come
ogni tanto, per cenni e intese, pareva fare anche lui, che per Mario scattare
le foto fosse servirsi di un magico grimaldello che lo faceva entrare nelle altre
esistenze. Quella perenne macchina fotografica al collo gli consentiva di
afferrare la natura a volte più intima della misura umana che tutti ci portiamo
addosso nel bene e nel male. E per Dondero le vite degli altri, presi uno a
uno, non erano solo una possibilità narrativa ma piuttosto un irrinunciabile
occasione, quasi una ragione primaria attribuita alla sua esistenza nomade.
Perché Dondero fermo in un posto pareva non saperci stare, andava e veniva da
Parigi, prendeva casa in una città e poi ripartiva e poi ancora spariva sul
serio. Andava e regalava. Perché se partiva lo faceva per andare a regalare
quello sguardo suo all’Africa o all’Asia o ai vicoli di una città vicina e
conosciuta nelle sue pieghe più profonde o anche solo intuita con quel genio
che gli faceva cogliere l’essenza delle cose nella sintesi formidabile di uno
scatto. Trovarlo non era facile. Anche quando c’era da parlargli di lavoro. Finiva
per apparire da solo quando cominciavi a pensare davvero che non lo avresti
visto più, rinnovando la leggenda, costruita anche dai suoi stessi colleghi
nel tempo. Già la leggenda. In questi trent’anni di esplorazione della
fotografia italiana che mi ha permesso di fare libri fianco a fianco con alcuni
dei formidabili protagonisti della stagione del fotogiornalismo italiano, tutti
avevano delle storie mirabolanti da raccontare e spesso Dondero era il
protagonista. Più di una volta ho sentito raccontare la storia dell’italiano
che arriva in uno sperduto villaggio africano e quando il capo tribù capisce da
che posto arriva lo straniero, suona tremendamente come una barzelletta e me ne
rendo conto, gli chiede notizia di Mario Dondero. Segno che lui e le sue Leica
erano già arrivate anche lì. La storia finiva qui o spesso aveva un’ ennesima
potentissima appendice picaresca ma si badi che la vera cosa prodigiosa era che
a tramandarsi questa vita straordinaria erano uomini fuori dal comune, gente
pronta a sfidare il destino per uno scatto, disposti a viaggiare con tutti i
mezzi possibili e pronti a guardare con i loro occhi sfrontati la vita e la
morte. Gente avvezza alla polvere e che alla polvere, in barba all’ammiccamento
letterario, non chiedeva niente ma piuttosto rispondeva. Proprio quella
razza lì che, confessiamolo, difficilmente si sbilancia a parlare del lavoro di
altri come loro, aveva trovato in Dondero una figura narrativa a cui affidare
la costruzione del loro mito e tenerlo vivo.
Con Mario Dondero mi ero incontrato a
vario titolo, spesso per caso, ritrovandoci a tavoli in cui condividevamo amici
e sorrisi. Mi presentavano e passavamo qualche minuto a ricordarci dove ci eravamo
già visti. Cose così insomma. Per ricordarlo però voglio raccontare una cosa
che lo vede come protagonista fino a un certo punto ma che è piuttosto una mia
storia, parte del mio andare, preso come sono anche io da quella febbre
maledetta del nomadismo.
Doveva essere l’inverno del 1997. Mi
trovavo in via Tomacelli a Roma, nella redazione degli Editori Riuniti. Stavo
mettendo a posto con il grafico l’impaginato del mio libro sul Boom economico,
un racconto per immagini dell’Italia alla metà degli anni Cinquanta. Il volume
sarebbe uscito di lì a poco ottenendo grande successo di vendite e di pubblico.
Avevo coinvolto grandi nomi della fotografia italiana e alcuni sarebbero
diventati amici dopo quella esperienza, altri li frequentavo da prima. Gianni
Berengo Gardin, Enzo Sellerio, Piergiorgio Branzi, Melo Minnella e tanti altri,
avevano contribuito alla costruzione di quel racconto corale. All’appello
mancava proprio Mario Dondero ma in quei giorni sembrava impossibile trovarlo.
Ci eravamo rassegnati a fare a meno delle sue foto. Era sera. Se non avete mai
lavorato in una redazione, sappiate che nelle sere invernali la luce delle
lampade che batte sulle bozze è qualcosa che ti si ficca nelle pieghe delle
palpebre e ti gonfia gli occhi e tu a correre a filo di penna o matita sulle
righe e le parole, sempre in bilico, sempre a mezzo respiro. A una certa ora e
d’inverno poi, nelle redazioni si parla poco. Meno. Anche io. Puoi non crederci
ma è così. Stavo ultimando la bibliografia di riferimento per poi andare con la
metro alla stazione e ritornare a Perugia. In quei giorni facevo la spola tra
la casa dei miei nel capoluogo umbro e la redazione di via Tomacelli, in quel
ventre costoso di Roma con i negozi delle grandi firme e la marea mugghiante
dei turisti che monta a ore fisse e senza ragione che non sia l’influsso della
luna. Insomma ero lì dal mattino presto, dopo una trasferta all’alba su certi
convogli sgangheri che da Perugia arrivano alla capitale e, per coprire quella
breve distanza, toccava pure cambiare e prendere coincidenze al volo. Stanco.
Avevo voglia di scendere giù al bar a bermi qualcosa. Volevo però finire.
Avevamo già impaginato e mancavano solo i dettagli. A un certo punto si apre la
porta e entra il sorriso di Mario Dondero. Ficcato in un cappottone e con una
borsa gonfia a pendere sulla spalla. Da giurarci che dentro ci teneva anche la
macchina fotografica. Alzo la testa dalle bozze e non ci credo. Lo guardo come
si guarderebbe un fantasma. Passato a salutare, così dice. Gli chiediamo se ha
una foto degli anni Cinquanta sua da darci per il libro e dalla borsa tira fuori una
stampa in bianco e nero su carta politenata. Ridiamo. A pochi secondi dalla
fine. A quel punto, mentre il grafico a gomitate fa spazio nell’impaginato per
regalare l’onore di una pagina intera alla foto di Mario, rimaniamo lì a scambiarci
parole e gli racconto dei miei viaggi con le tradotte che arrivano dall’Umbria
e lui ride. Poi facciamo progetti e lui sorride quando cerco di ricostruire la
distribuzione tra case e donne e parenti e fughe del suo archivio. Impresa
titanica. Ridiamo ancora. Il libro è impaginato e dentro c’è una sua foto, non
ho da chiedere altro al mondo. Scendiamo in strada e mi offre da bere, giuro
che ho insistito per pagare ma non c’era verso, e prendo un bicchiere schifido di
vino rosso che ci fosse stato Piero Ciampi altro che balle, gli avrebbe
distrutto il locale a quelli lì. Restiamo ancora lì a lungo. Fuori piove. Poi è
tempo di tornare a casa. Ci promettiamo di ritrovarci presto. Come potrebbero
prometterselo due tronchi in balia delle onde. E lo sappiamo. Per questo ci
mettiamo parecchio a salutarci. E nella borsa ho le bozze definitive e la sua
foto. Con quella gioia lì mi avvio verso la stazione.
Prendo un treno di quelli sgangheri,
credo si dovesse cambiare da qualche parte ma forse era un diretto per Perugia.
Sta di fatto che, nel buio nero dell’inverno e mentre continua a piovere, a un
certo punto il treno si inchioda in uno stridere di ruote metalliche e notte e
scintille e gente che urla e carrozze che si scuotono e luce che va via e non
torna e il pavimento che vibra come a dar conto della morte di quella bestia
meccanica. Fermi nella notte. Nessuno capisce cosa è stato. Non si vedono luci
intorno. Qualcuno, forse il personale di servizio, scende timidamente con una
torcia in mano. Si sente gemere e grida prolungate. Dei versi di dolore. Da
tutte le parti e sparse nel buio queste urla salgono al cielo e entrano nel
buio dei vagoni. Orrore vero. Poi si comincia a capire. Il treno ha investito
un enorme gregge di pecore e col favore della luce riattivata in alcuni vagoni
quelli sul treno cominciano a intuire cosa sia successo. Pecore ancora vive
incastrate sotto i vagoni, pecore sbranate dal binario e la macchina che stanno
sparse attorno come nei peggiore horror da quattro soldi. Altre pecore sopravvissute
corrono intorno e sono ombre agghiaccianti, i segugi di Tindalos, le fiere
dantesche, un esercito oscuro venuto a chieder conto delle nostre anime di
viaggiatori, che c’è da giurarci che l’Ade è lì. La gente prova a scendere e le
gambe affondano nella mota. Siamo in mezzo ai campi bui. Piove. Un uomo alto,
di colore, con un cappello di astrakan, grida. “Io sono un funzionario
d’ambasciata, io sono un funzionario d’ambasciata”. Qualcuno gli chiede di
piantarla e tutti gli fanno capire che non gliene fotte un cazzo e che nulla
può cambiare a suo favore adesso. E le pecore dentro le ruote e il sangue sulle
fiancate e l’odore di pioggia e viscere. Nella mia borsa ho la bozza definitiva
del libro. Penso a Mario Dondero e a come mi chiedeva dei miei viaggi
giornalieri con il trenino. Mi domandava dei miei viaggi in genere e io a lui
dei suoi e ridevamo. Poi non mi ricordo come m’era presa quella cosa mia dei
racconti, che non è un caso se qualcuno mi chiama da anni el Cuntà, e gli avevo descritto quelli con cui
condividevo i viaggi da Perugia. Insomma ero lì in quella scena tremenda che
attivava mille storie nella storia e ho capito cosa aveva cercato di dirmi
Mario Dondero quella sera, mentre mi mostrava le foto che aveva in borsa. Ero
lì e sapevo che è la strada, l’andare che ti consegna le storie. Poi ci hanno
fatto camminare nel buio, dopo ore, con il fango che ai miei anfibi faceva poco
ma che forse si mangiava le scarpe del diplomatico colbaccato e del suo codazzo.
Una sorta di armata in ritirata. L’anabasi dei pendolari. Siamo arrivati su una
strada e sono venuti con degli autobus a recuperarci. Ci hanno portati, mi pare,
a Spoleto e in quell’attesa forzata altri lampi di umanità mi hanno regalato
storie ennesime. Mi sono ripromesso di tenerne buona memoria per il pranzo del
giorno dopo, a Roma, con Mario Dondero. Inutile dire che non è più passato e ho
mangiato da solo perché così andava sempre.
Poi Mario l’ho ritrovato ancora una
mattina alla stazione di Arezzo. Andava a trovare un amico, una sorta di
mecenate che gli faceva fare mostre e libri da quelle parti, uno che avevo
conosciuto anche io mentre allestivo a Siena la mostra su Franco Pinna.
Gliel’ho raccontata, fuori tempo massimo, la storia del treno e della notte
d’inferno. Aveva un lampo negli occhi. Sospetto che gli sarebbe piaciuto
fotografare le facce che marciavano nel buio sotto la pioggia. E, nell’oscurità, le
foto sono solo una suggestione ma vale la regola che si scatta per entrare
nelle vite e nelle emozioni, prescindendo dal favore di luce e con buona pace
dell’esposimetro.
L’ultima volta Mario l’ho ritrovato
qualche anno dopo al salone del libro di Torino. Ci siamo fatti grandi feste e
Stefania era al settimo mese e lui ha voluto a tutti i costi farle un mucchio
di foto. Quello era Mario, uno che ti scattava foto che poi non rivedevi mai.
Ma io e Ste siamo contenti di averci qualche foto nostra infilata chissà come
nell’impossibile archivio randagio di Mario Dondero. Grazie a te.
martedì 16 febbraio 2016
Appunti dal futuro
Quando lavoravo in casa editrice come photo editor un
paio di volte alla settimana, a spezzare la consuetudine con le agenzie e con
la digitalizzazione sistematica di tutte le narrazioni iconografiche possibili,
la scrivania mi si riempiva di foto stampate su carta politenata. Generalmente
erano foto in bianco e nero perché pare che regalino una potente suggestione
autoriale, soprattutto tra quelli che di fotografia non capiscono niente. E una
volta su due erano personaggi che m’avevano chiesto per mesi udienza, non che
fosse difficile raggiungermi ma questi me li dovevo gestire a dosi misurate per
non esserne consumato. Arrivavano e mi piazzavano davanti albi ingrassati da
stampe di pregio. Alcuni fotografavano ancora su pellicola. Ingrandimenti che
dovevano essere costati parecchio e che quelli del laboratorio avevano fatto
stampando su carta fotografica dal computer quei ricercatissimi negativi
preventivamente passati allo scanner. Tutto è file o tutto lo diventerà. E
questi poveracci s’erano dannati a scattare in ossessione di posa e impugnando
esposimetri spot che potevano raccontarti con intima precisione la millimetrica
natura della luce. Andavano a ritirare le stampe e pagavano convinti che nel
retro ci fosse un omino che stampava alla luce rossa della camera oscura,
passando la carta dallo sviluppo al fissaggio con consumata abitudine. E la grana dei loro negativi, sparsa con
casualità era stata intanto sostituita dai pixel geometricamente ordinati della
stampa digitale ma loro non sospettavano l’oltraggio alle loro gelatine
sensibili primigenie e si guardavano le stampe valutando con orgoglio la gamma
dei grigi. Al fotografo di quella pezzatura piaceva e piace pensare di saper
vedere cose che non esistono nel suo cervello. Parlava di incisione, di contrasto
e cose così perché l’avevo letto nei blog e nelle riviste. Una galassia umana tragica
e dalla creatività in avanzato stato di ottundimento. Gli stessi che scrivevano
e scrivono in rete l’opinione su qualsiasi oggetto e coltivavano passioni
tenaci ma la fotografia era la loro ossessione su tutto. Scattavano e poi
caricavano sui siti di condivisione, non luoghi dell’attenzione in cui ognuno
sta concentrato sulle sue cose e lo scambio eventuale tra utenti è funzionale
solo all’attivazione di reciproche attenzioni che sono monumenti alla
solitudine. Io guardo le tue foto se tu guardi le mie e ti farò i complimenti
ma dentro continuerò a pensare che tu ora starai guardando e capirai che io
sono molto più bravo di te. Lo pensano entrambi e allo stesso modo si fanno
grandi complimenti.
A un certo punto della loro ossessione autoriferita iniziavano
a chiamare me e a scrivermi e con il copia incolla prendevano contatto con
altri trecento miei omologhi della macchina editoriale sparsi per il mondo. E
un giorno varcavano la soglia di quel mio ufficio ingombro di vecchi giri di
bozze e copertine abortite e stamponi e tipometri. Entravano timidi e mi
mettevano le foto davanti, decisi a giocarsi la carta dell’umiltà. Ma io lo
sapevo che non sarebbe durata molto. Scorrevo le foto, che la curiosità
s’attiva sempre ma poi viene inevitabilmente sostituita da una pratica minima
della cortesia. Una volta su tre le foto erano la memoria di un viaggio in
India. Sospetto che per noi le pagine salgariane abbiano costruito nel tempo un
immaginario esotico condiviso che prescinde ormai dalla lettura e che piuttosto
è una sorta di tara genetica. Quelle foto dell’India, anno dopo anno, albo dopo
albo, erano sempre uguali. C’era un tizio con il turbante seduto a gambe
incrociate a bordo Gange. Guardava in macchina e fissava dritto me. Lui pareva
averlo capito che tutte quelle foto della sua faccia in bianco e nero per
enfatizzare i segni della pelle e gli occhi strizzati dal sole e la magrezza
che lo davano in odore di santità,, che in India tutto è santo di qualcosa
d’altro, negli anni sarebbero arrivate alla mia scrivania. Lui guardava proprio
me in quelle fotografiee c’era complicità. Entrambi campavamo grazie a quel
cerchio che iniziava quando lui accettava qualche rupia per farsi fotografare e
si chiudeva quando fingevo di guardare assorto quel racconto politenato in
bianco e nero. Non riuscivo a non guardarlo, a non fermarmi su quella faccia
che avevo imparato a conoscere. Quasi m’accertavo che da un fotografo
all’altro, da un albo all’altro, il mio complice se la passasse bene e potesse
tenere botta per altre mille foto ancora.
A realizzare quelle immagini non erano mai i
professionisti, quelli sono sciacalli furbi della comunicazione e non si sognerebbero
di presentarsi a un photoeditor con la foto del santone del Gange a meno che
quest’ultimo non fosse stato strangolato da un Thug. Maledetta incancellabile
memoria salgariana che torna come un rigurgito a ogni suggestione d’esotico.
Quelli che facevano quelle foto amavano definirsi “amatori evoluti”,
recuperando una surreale definizione di moda nelle riviste di fotografia per
costruire una sorta di limbo tra i dilettanti e i professionisti. In quella
terra di nessuno il mercato pescava a mani piene, perché vi si aggiravano vite
sospese tra la secca d’abitudine di esistenze scandite da ritmi da ufficio
ministeriale, impieghi sicuri e cattedre ottenute da un concorso all’altro
arrivando vecchi e senza fiato alla propria missione didattica. Avevano soldi da
spendere questi qui perché erano disposti a comprare i loro sogni come già
avevano da un pezzo imparato a far mercato delle proprie voglie e riempivano
borse capienti di attrezzature e obiettivi e camminavano d’estate con il
fardello delle truppe coloniali in marcia nel deserto dell’anima.
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