Ieri era il 7 luglio. Ero in treno di ritorno da
Bologna. Roba di lavoro. Ero sul Frecciarossa prima classe, il biglietto me
l’hanno fatto e consegnato via mail ed è come viaggiare su una sede operativa
della NASA, con tutti che si spalmano sul tavolino computeri smartofoni e
tabletti in numero vario e sempre attivi e passano da una videata a un clic e
parlano a voce alta dando ordini a qualcuno che forse viaggia in un altro
vagone di quell’azienda vivace che si materializza tutti i giorni sui treni che
sfrecciano per la pianura padana. Il 7 luglio dicevamo. Al ritorno, viaggiavo
nel primo pomeriggio e ho evitato che m'afferrasse la stessa scena di pulsante euforia
lavorativa, a cui oppongo albi di Zagor e quaderni scritti con la stilo e non
per luddismo ma solo per acquisita pratica dell’andare, fosse anche in prima
classe. Il viaggiatore viaggia leggero.
E ieri era il 7 luglio. Il vagone del ritorno era quasi vuoto e non
c’era quel pulsare d’elettronica e di concitato procedere in punta di cravatta
della mattina. Non c’era quel fare annoiato di quelli che chiedevano un succo
di qualcosa e lo snack. Come lo vuole lo snack? Dolce o salato lo snack?
Taralluccio o biscottiello? Che cazzo mi rappresenta lo snack? Sono salito sul
treno a digiuno per rispetto al ricordo del pranzo del giorno prima a base di
pappardelle e cinghiale, che mi verrebbe da dire “come non ci fosse un domani”
ma quelli che scrivono così sono gli stessi che scrivevano “mitico” o “beato
come un limone tra le cozze” e allora volo basso e mi tengo sul mio. Insomma
salgo sul treno e vicino a me si siede un collega, che normalmente, nella vita
reale dico mica in questo Bladerunner con cui mi misuro tutti i giorni, non ci
avrei diviso nemmeno il palo dove piscio il cane. Attacca a farmi tutto uno
spiego sui costi e la razionalizzazione e, non ci posso credere, prende un
tablet e mi fa vedere delle slide. Faccio cose che stanno ficcate nelle pagine dei libri io di mestiere, nello stesso luogo
dove lui si occupa della logistica, un posto che siamo la metà di mille e non
ci conosciamo mai. Lui è entusiasta. Non gliene frega nulla dei miei silenzi e
del mio guardare fuori dal finestrino. Ha imparato ‘sta lezioncina del
contenimento costi e la vuole raccontare a me, che a livello di risparmio sto
messo che il mio porcello salvadanaio va dallo psicanalista perché non trova
una ragione per esistere. Questo qui si occupa della carta igienica e della
pausa caffè e dice che vuole temporizzare i cessi e roba così. Il presente
appartiene ai bidelli che per insegnare non c’è più nessuno buono. E intanto è
il 7 luglio. Ci penso e mi ricordo i morti di Reggio Emilia. Senza
retorica. Forse solo per non ascoltare quest’altro che fa scorrere diagrammi di
ottimizzazione del nulla. A giugno a Genova, per i carrugi e in piazza De
Ferrari scoppiò l’inferno. Mi ricordo quella stagione lì mentre l’altro perde
la connessione e si incazza con un cavetto del tablet e non sa dei morti di
Reggio Emilia anche se sul suo profilo in rete si è scritto che è appassionato
di storia e nello specifico della seconda guerra punica. Che cazzo vuol dire
essere appassionato di seconda querra punica. Come se dicessi che sono
appassionato del congresso di Vienna. Ma è tutto così, dentro ‘sti vagoni, in
barba al paese immobile e asfittico che scorre fuori dal finestrino, ci sono
questi qui che giocano a questa pirandelliana farsa per maschere e si
compiacciono delle reciproche esistenze, che solo tra loro possono
giustificare. In giugno a Genova, altre estati misurerà sul passo tragico quella
città ma ora penso al 1960, la gente scende in piazza. Muoiono persone in quei
giorni in giro per l'Italia, l’apparato repressivo del ventennio è in piena
efficienza e non c’è stata nemmeno l’intenzione di cambiarlo a guerra finita. I fascisti hanno scelto, al culmine di quella tensione che rimbalza dalle terre
occupate alle piazze operaie e lascia morti in terra, di fare il loro congresso
a Genova. Quella città lì è medaglia d’oro per la resistenza, per farci un’idea
e mica per vanto che non vuol dire nulla che anche mio nonno era medaglia d’oro
e guarda tu se gli è servito a scampare un’esistenza e una morte in mare
cercando di riportare ogni giorno un piatto caldo ai figli. Però quella del
1960, altro che larghe intese e pupazzielli fiorentini, suonava come una vera
sfida e era acido sulla faccia di quella gente che ancora sentiva l’odore della
guerra sui muri delle case e nelle dispense. Insomma scendono in strada e
tirano in piedi un casino che togliti. Quando a metà degli anni Novanta stavo
curando il mio libro sul Boom economico sono andato a Genova e i camalli mi
hanno dato le immagini e questa storia l’ho raccontata con attenzione in quelle
pagine e mi ricordo che c’era questa foto di un camallo, famoso per la forza
fisica, che sollevava da solo in piena piazza la camionetta carica di celerini e
la ribaltava. Me la ricordo anche se in realtà proprio quella scena non l’ho
vista in fotografia ma mi è stata raccontata in lunghe sere genovesi davanti a
un bicchiere e alla fine potevo giurare, in barba alla nozione scientifica che
dovrei portarmi dentro di fonte e documento, che quella foto esisteva e basta.
Addirittura sapevo il nome del camallo, o meglio sapevo come lo chiamavano
all’epoca e senza averlo conosciuto lo sentivo come una figura familiare.
Scherzi della condivisione della memoria. E intanto il treno entrava in
stazione e dai fatti di Genova ai giorni che arriveranno e ai morti lasciati sul selciato di Reggio Emilia il passo è breve e volevo ancora ricordare ma già il mio collega s’affrettava a rimettere a posto la sua strategia
migliorativa del respiro del lavoratore tutta ficcata nel tablet e io facendo
due conti mi sono detto che dai fatti di Genova sono passati abbondanti più di
dieci anni per arrivare allo statuto dei lavoratori che sancisse orari,
malattie, ferie, maternità e altri diritti spiccioli. C'era morta della gente su quelle firme lì ma mica vorrai stare a diventar matto. Il mio collega non ne
conserva memoria di quei giorni e nemmeno dello statuto pare ma credo sappia molto della seconda guerra punica e il suo
diploma in ragioneria lo mette, lo dice la parola stessa, già dalla parte della
ragione ed è già buono da spendersi per spiegarmi il piano tariffario
formidabile del suo smartofonino. Non è poco dico io, di questi tempi non è
proprio poco. E alle mie spalle sento partire una freccia rossa ma non mi
faccio più illusioni da un pezzo e vado verso il bar che ho bisogno di bere qualcosa, che ho la memoria secca.
Scontri in piazza De Ferrari, Genova, giugno 1960 |
Nessun commento:
Posta un commento