Premessa.
Ogni giovedi dalle 15 alle 16 su www.ondefurlane.eu c'è Convoy, trincea d'ascolto un programma in cui si parla, io parlo per la santa precisione di fotografia alla radio. Anche di fotografia a ben vedere. In appendice alla trasmissione carico sul blog il racconto di alcune delle immagini evocate dai microfoni, giusto per dare una possibilità in più alle fotografie di esistere oltre la mera nozione che ne abbiamo sfogliando le riviste e guardando sui muri delle città.
1936.
I braccianti arrivano alla fattoria provenienti dalle contee vicine ma anche dagli altri stati. In treno, viaggiando su carri merci presi al volo, sempre con il rischio di essere scoperti e riempiti di botte da quelli delle ferrovie. Altri arrivano in auto, non certo belle macchine fresche di fabbrica, piuttosto rottami precari e rugginosi che hanno preso il posto dei carri dei pionieri e sono mezzi di trasporto ma anche letto e cucina e tetto. Per tutta la famiglia. Gli accampamenti sono pieni di bambini laceri, almeno di quelli che ancora non sono stati avviati al lavoro agricolo. Sono ormai anni che quella multiforme comunità si sposta inseguendo i ritmi della stagione agricola. Declinando l’esistenza soltanto al presente.
Dorothea
Lange si aggira per anni tra quei volti segnati ed è parte di quella
comunità, Di più, è la possibilità offerta alla memoria di quella
gente disperata. La Lange va in giro aggrappata
con ostinazione a suo apparecchio fotografico, con l'ossessione della
realtà, in contrapposizione alle foto finte e stucchevoli dei
pittorialisti, i fotografi che volevano realizzare foto che
sembrassero quadri. Se ne va in giro, Dorothea, portandosi addosso
il segno della poliomelite trasformata nel vantaggio di un passo
diverso per un'attenzione diversa. Ha la premura di raccontare le
cose più fragili, ben sapendo che sono quelle che possono
dissolversi da un momento all'altro. Si è dedicata per la parte più
consistente della sua esperienza fotografica, a documentare il reale,
senza infingimenti, senza espedienti. Le sue foto compaiono nelle
riviste dell’epoca e sono il racconto di quei giorni drammatici,
comprensibile anche da chi non sa leggere.
I
braccianti si sono radunati nell’area della California dove in quel
periodo si raccolgono i piselli destinati all’industria
conserviera. Chilometri e chilometri di monocolture. Sistemati ancora
una volta alla meglio. Al campo c’è anche Florence Owens
Thompson,. Trentadue anni e sette figli sono le cifre significative
dell’esistenza di questa donna. Dorothea è un’abitudine per
quella gente e ormai nessuno fa più caso alla fotografa dal passo
incerto che si aggira tra i rifugi di fortuna. Nessuno si mette in
posa e quello sguardo fissato nel vuoto, incorniciato tra i corpi
avvinghiati dei bimbi è il racconto potentissimo di quell’epoca.
Al punto da diventare una delle icone del Novecento, e una delle
pietre miliari della storia della fotografia di tutti i tempi.
Dorothea Lange, Madre migrante, California, 1936 |
1984.
Il campo profughi di Peshavar è una distesa infinita di tende. Sono cinque anni dall’intervento massiccio dell’esercito sovietico. Sono cinque anni dall’arrivo dei carrarmati con la stella rossa. Gli elicotteri con il loro palpito di morte, hanno cominciato a volare sui villaggi. Bombe, agguati nella notte, uomini che partono dal villaggio senza più tornare. Questa storia Sharbat Gula la conosce bene. Lei è una Pashtun, il suo è un popolo fiero che resiste in quelle terre martoriate da una guerra eterna. Cambiano i contendenti ma è sempre guerra e sempre tragedia per le vittime indifese. Sharbat Gula è solo una ragazzina ma ha già dovuto fare i conti con un’esistenza segnata dal dolore. Ha perso la sua famiglia ed è arrivata al campo profughi in Pakistan dopo mille traversie. Quel giorno è nella tenda che lì usano come scuola, giusto per non perdere la speranza di un ritorno alla normalità. Steve Mc Curry ha scelto di raccontare con le sue foto la tragedia della guerra. Beirut, Jugoslavia, Cambogia, Filippine, guerra del Golfo, Afganistan sono gli scenari in cui realizza i suoi scatti, sempre caratterizzati da un uso intensissimo, drammatico del colore. Ha imparato a vestirsi come i soggetti che intende ritrarre, lascandosi assorbire dall’ambiente che lo circonda, diventandone parte. Ha appreso la lezione dei grandi maestri di reportages e si muove nel campo profughi con lo stesso rispetto di Dorothea Lange tra i braccianti, tra gli ultimi. Il ritratto di quella ragazza, ancora non lo sa, diventerà di lì a poco una delle più famose copertine di tutti i tempi. Diciassette anni dopo tornerà sui suoi passi e ritroverà Sharbat, ora madre. L’esercito dell’unione sovietica se n’è andato, anzi è sparita dagli scenari internazionali la stessa Unione sovietica, ci sono stati i talebani, poi gli americani con i loro alleati e i terroristi islamici e di nuovo gli integralisti. Tutti carichi di armi e rabbia. Il tempo, quel tempo lì fatto di guerra e dolore e paura, ha segnato il volto della donna ma gli occhi sono ancora quelli rubati sotto la tenda a Peshavar e raccontano come nessuna immagine di soldati saprebbe fare il dramma di un’esistenza senza pace.
Steve
McCurry ha imparato a raccontare la storia dal basso facendo suo il
linguaggio dei reporter che per primi hanno scelto di occuparsi della
foto sociale. Ha saputo condividere la lezione della Lange e ha
deciso di raccontare attraverso gli occhi di chi subisce.
Steve McCurry, Ragazza afghana, Peshavar, 1984 |
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